Teatro Fusco: Si chiede chiarezza sulla gestione comunale. Compagnie disposte a proporsi e consorziarsi

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Teatro Fusco. Progetto Esecutivo di Studio Start. Immagine con fossa orchestrale aperta.

Una proposta di gestione del Teatro Fusco sarà redatta in un incontro tra compagnie teatrali ed associazioni culturali tarantine. Ieri mattina, nel foyer del Teatro Orfeo, uno dei proprietari, Adriano Di Giorgio, delegato provinciale di Agis ed Anec e con un incarico nella Commissione Pubblico Spettacolo alla Provincia di Taranto, ha lanciato un appello ad unirsi ed insieme a Lino Conte, difronte ad un primo gruppo di interessati, ha chiesto chiarezza su una struttura pubblica costata parecchi soldi. I lavori al cantiere teatrale dovrebbero fine entro la primavera, tra maggio e giugno, e sulle forme di gestione non ci sarebbe certezza. Si pensa ad una gestione diretta, ad una gestione indiretta con forme di esternalizzazione privata, ad un affidamento diretto ad enti pubblici o ad un bando pubblico? L’assessore comunale alla Cultura, Franco Sebastio, avrebbe ipotizzato due strade, o la gestione indiretta con esterni in affiancamento o una gara di evidenza pubblica. Tuttavia, in questa fase di incertezza, gli operatori teatrali privati potrebbero decidere di consorziarsi: «Il Comune di Taranto – spiega Adriano Di Giorgio – potrebbe gestire direttamente il Teatro Fusco, due anni, con l’affiancamento di un operatore esterno, o indire un bando di gara. L’operatore esterno dovrebbe essere nominato direttamente. Noi abbiamo chiesto di presentare una nostra proposta e farci portavoce di tutte le realtà locali di Taranto, affinché possa diventare davvero la casa delle compagnie tarantine e non una struttura manager di se stessa o un’altra cattedrale nel deserto. Pensiamo ad un canone agevolato a favore di tutte le compagnie locali – precisa – non dobbiamo trovarci davanti al fatto compiuto di un’assegnazione diretta. In tanti anni – ha continuato – non abbiamo mai avuto un contributo pubblico, né a favore di nostre stagioni, né a favore di altri operatori. Il Comune deve dare la possibilità di assegnare fondi pubblici alle compagnie locali. Noi abbiamo unito 5 teatri di Puglia e non siamo nemmeno tra i primi 100 nella graduatoria in bandi regionali. Non abbiamo avuto i punteggi minimi, non capiamo il motivo. Ci vuole un controllore sui contributi».

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Conferenza stampa sulla proposta di gestione del Teatro Fusco. Nel foyer del Teatro Orfeo di Taranto.

Il Teatro Pubblico Pugliese, si spiegava agli intervenuti, ha comunicato in ogni caso l’intenzione di organizzare le stagioni di prosa al Teatro Orfeo, più capiente (747 posti), ed al Teatro Fusco (477 con la fossa orchestrale chiusa e 417 con la fossa orchestrale aperta e sollevata) e, conseguentemente, non più al TaTÀ, e la stessa amministrazione comunale confida di inaugurare la stagione di prosa al Teatro Fusco. I tempi stringono, dunque, e le domande sugli effettivi gestori sono ancora tante: «Perché non potremmo tornare a metterci insieme? Nell’81 – ricorda Lino Conte – fondammo l’associazione “Taranto Teatro” e rappresentavamo tutti, spesso con il critico Gianni Amodio. Pretendiamo rispetto. Crediamo sia giunto il momento di tornare a discutere. Al Tarentum, al Turoldo, ci siamo tutti. Perché non finalizziamo l’unione? Non dovremo accettare una gestione non tarantina di un teatro comunale. Dovrebbero darci la possibilità di organizzare laboratori teatrali». Hanno ascoltato e o borbottato in parecchi e, tra gli altri, Netty Russo ha suggerito di nominare un portavoce ufficiale unico e Gianfranco Carriglio, direttore della compagnia teatrale “La Rotaia”, ha chiesto chiarimenti su eventuali gestioni comunali dirette: «Ci sarà un regolamento di accesso, essendo una struttura pubblica? Feci questa osservazione quando fu affidato il TatÀ ai Tamburi (proprietà pubblica provinciale, ndc). Mi considerarono il nemico ed il TatÀ continua a non essere gestito a livello pubblico. Questo è il discorso nei teatri pubblici. Il Comune si deve incaricare di fare un regolamento di accesso».

P.S: Miei testi pubblicati su Nuovo Quotidiano di Puglia, il 30 gennaio 2018, erroneamente attribuiti ad altra collega. 

“Terra Magica”: stupisce i bimbi, commuove gli adulti, evoca Margaritella e Mago Greguro in masseria

Vi faccio una confessione. Alla prima di “Terra Magica”, il 9 settembre alla Masseria Canonico sulla strada provinciale 42, km 2, tra Massafra e Crispiano, mi sono commossa. È capitato in un momento preciso, quando Cosima (Valeria Cimaglia), giovane discendente di massari, decideva di prendere la valigia ed andare via e salutava la zia Anna (Marina Lupo). Il futuro ed un malinconico e nostalgico presente si salutavano e prendevano direzioni diverse. L’una prometteva di tornare un giorno ad assaggiare il pane profumato e l’altra avrebbe seguito il suo destino, insieme agli altri contadini, nella terra delle gravine. Quando Cosima ha preso la valigia ed ha lasciato la masseria, una bimba si è alzata, si è voltata ed ha esclamato: “Parte davvero, va via?”. L’incanto di questa “Fiaba Rupestre” di Barbara Gizzi si era compiuto.

La giornata è stata tutta una sfida, iniziata con un sogno caparbio di Massimo Cimaglia, ideatore e regista, provato e con il cuore in gola, alla fine di questa suggestione poetica, sognata e realizzata. Ha lasciato Taranto e la terra jonica tanto tempo fa ed ha sempre cercato di sostenerla, farla rinascere, senza mai rinunciarci. Si possono ed a volte devono scegliere strade diverse. La voglia di tornare e vivere tra le radici non ci abbandona mai e questo è davvero un caso emblematico, trasmesso alla famiglia ed ai suoi affetti .

Se la strega Margaritella, detta Marangella, (Debora Boccuni) ha fatto la magia giusta, sarà soltanto la prima di tante edizioni. Nel cast, figuravano: Simona Cucci (Addolorata); Antonello Conte (Pietro); Giuseppe Colucci (Carmelo); Stefania Infantini (Maria); Claudia Cimaglia (Lucia); Simone Carrino alle percussioni; Bruno Galeone alla fisarmonica.

Le aspettative sono state confermate e superate. 

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Nuovo Quotidiano di Puglia, 7 settembre 2017, Taranto

 

L’orgoglio di Leo Pantaleo, i suoi costumi di “Anna Fougez, Il mondo parla, io resto” esposti in “Irresistibile Fougez” fino al 2 aprile

 

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I costumi di Leo Pantaleo, suo orgoglio in Anna Fougez, il mondo parla, io resto, nella mostra “Irresistibile Fougez”

Ero certa di trovare, stamattina, i costumi di Leo Pantaleo esposti nella mostra “Irresistibile Fougez“, alla Galleria Comunale di Taranto, al Castello Aragonese, insieme ad altre riproduzioni di sue collezioni o di foto e locandine di cineteche ed altri proprietari di cimeli originali.

Io, i suoi abiti, li ho visti in scena con i miei occhi, nel 2007, nel ventennale della sua commedia musicale “Anna Fougez, il mondo parla, io resto”, presentata in una conferenza stampa insieme all’associazione Culturale Angela Casavola ed alla compagnia stabile dell’autore. I due atti con gran finale strabiliarono il pubblico del Teatro Orfeo, lasciando bellissimi ricordi in tutti gli spettatori ed artisti, donati ai posteri nel canale youtube di Sabino Dioguardi, 1961 Taranto, proprietario prima di cedere la storica sala centenaria tarantina ai fratelli Adriano e Luciano Di Giorgio.

Allora, scrissi presentazione e recensioni in più occasioni, pubblicate su Nuovo Quotidiano di Puglia. Il collezionista ed operatore culturale, Paolo Ruta, ha acquistato il suo costume più bello, bianco, nero e spumeggiante, indossato nel gran finale, dieci anni fa, riutilizzato in un omaggio teatrale recente, un anno fa’, insieme alla sua associazione “Amici della Musica” al TaTA’ ed altrove, ed esposto accanto ad altri due costumi di scena di Leo Pantaleo, in prestito in altre occasioni inserite in cartelloni del Teatro Pubblico Pugliese o nel 2014, 120° anniversario della nascita della sciantosa, al Mudi (Museo Diocesano). Ho pensato di condividere con i lettori di questo blog i miei articoli del 2007 e contribuire alla memoria storica di due stagioni, distanti, di omaggio alla diva del tabarin. In parecchi, fortunatamente, l’hanno riscoperta. Tanti, mai abbastanza, hanno iniziato a farsi affascinare grazie alla sua costante passione e dedizione, dopo i primi omaggi teatrali ed espositivi nel 1987. Alcuni appassionati ricordano in quegli stessi anni una sua elegante esposizione, sempre nella Galleria Comunale, vicino al Ponte Girevole, e la prima versione della sua commedia musicale, probabilmente, solo in quel primissimo allestimento, con alcuni accessori ed abiti appartenuti alla sciantosa più amata.

P.S: in azzurro o nero, collegamenti a nota stampa e fonti in rete. 

 

 

“Taras è Mitologia. Falanto è cronaca”

 

Sarà stato il liceo classico, nascere a Taranto o il destino. Un fatto è certo, nella mia vita, sfogliare libri di mitologia ed epica mi ha sempre incredibilmente affascinata. A catturare la mia attenzione, è stata, negli anni, questa capacità di raccontare attraverso favole leggendarie le gesta storiche del passato. Questo modo di narrare, in tantissimi casi, viene ricordato nei Convegni di Studi sulla Magna Grecia, arrivati alla 56 ª edizione all’inizio dell’autunno scorso. Tra una relazione e l’altra, Paolo De Stefano, storico preside del Liceo Classico Quinto Ennio quando io frequentavo il Liceo Classico Archita, raccontava ai curiosi di un volumetto intitolato “Falanto ed i Parteni”, di Felice Presicci, esortando le scuole ad usarlo nei piani di studio. L’attore Massimo Cimaglia, tra l’altro, ricordava di averlo consultato tantissimi anni fa quando iniziò a lavorare a “Lo Sbarco di Falanto“. A quel punto, la mia curiosità è esplosa ed ho iniziato a cercarlo. Nessuna libreria sapeva nulla e solo gli storici librai di Filippi mi hanno suggerito di rivolgermi direttamente alla casa editrice Piero Lacaita. Faccio una ricerca su internet, lo trovo, lo ordino e finalmente oggi pomeriggio lo leggo. Questo libricino racconta in semplicità la contaminazione di mitologia e storia nella narrazione di Taranto, città dorica e colonia di fondazione spartana. Leggendolo, ti fermi ad immaginare Taras arrivata al suo massimo splendore negli anni di Archita, il Gimnasio, le lezioni di filosofia, scienze, arti, lo sport e l’atletica negli anni di Olimpiadi e Panatenaiche, celebrate nel corredo di anfore dell’Atleta di Taranto, al MarTa. E, tra le righe, apprendi con chiarezza perché le monete magnogreche a volte raffiguravano Taras, eroe mitico, o altre Falanto, ecista storico, sul delfino. Nelle scorse settimane, mi è capitato di osservare le teche dello stesso Museo Archeologico Nazionale di Taranto insieme al professor Aldo Siciliano, presidente dell’Isamg, Istituto per la Storia e l’Archeologia della Magna Grecia, numismatico. Esplorando il secondo piano dedicato alla fondazione spartana, finalmente aperto il 29 luglio dopo tantissimi anni, fu proprio lui ad insegnarmi ad usare la definizione corretta “Giovane sul Delfino” e riportai la sua spiegazione in un pezzo pubblicato su Nuovo Quotidiano di Puglia:  «A volte, raffiguravano Taras, il dio eponimo, altre Falanto, un personaggio storico realmente esistito, uno spartano ecista, fondatore. Nell’immaginario, spesso si equivalgono, però “Taras” è mitologia” e “Falanto” è cronaca». Storici, geografi, drammaturghi di un tempo raccontavano le gesta di questi personaggi, unendo generi narrativi, ed oggi sarebbero le nostre fonti giornalistiche, un concetto davvero suggestivo. Noi giornalisti del 2016, come racconteremmo la storia di “Falanto e i Parteni”? Racconteremmo la storia di pionieri alla conquista del west, donne e uomini liberi, senza vincoli, alla ricerca di un nuovo modo di vivere e progredire. Tanti di noi, si riconoscono in questa dimensione di sognatori in continua ricerca.  

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Il sogno a colori di vivere in una nazione “Rifondata sulla Bellezza”, sulle sponde di “Taranto, la città spartana”

Il tarantino, intristito, arrabbiato, tradito, deluso, ha bisogno di essere spronato.

La vena polemica della città non passa inosservata, nemmeno quando un giornalista viene a Taranto a raccontare le sue ricerche sul potenziale turistico.

Non ho ancora letto il libro di Emilio Casalini, “Rifondata sulla Bellezza”. Avevo letto la sua prima bozza e-book l’anno scorso, ormai rivista, aggiornata, arricchita, rivoluzionata e presentata recentemente: a Taranto, sulle Terrazze Next, nel primo evento di SogniAmo a colori; a Polignano, nella rassegna “Il Libro Possibile”.

Prossimamente, ritornerà in Puglia a presentare il suo libro/inchiesta sul Gargano, il 21 luglio, a Festambiente Sud.

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Progetto Onda Nova

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Emilio Casalini al microfono, sulla destra della fotografia, Rosalba De Giorgi e Marco De Bartolomeo. 

Non si comprende, quando si prova a capire la città, le sue risorse, il suo valore, perché il territorio sia sempre sulla difensiva e diffidente, quando qualcuno tende una mano, lancia uno spunto, un’idea.

Non so se abbia ragione  chi giustifica la reattività del tarantino, dopo anni di dominazioni e colonizzazioni, capaci di radicare nelle sue viscere una sorta di carattere predominante, genetico, irrinunciabile.

Sarà così? Inesorabilmente, anni di emigrazioni hanno favorito la fuga dei cervelli più combattivi?

Eppure, io qualcosa devo ricordarla e continuare a ricordarla.

Negli ultimi 4 anni, ho conosciuto tanti tarantini coraggiosi, tenaci. Loro, sognano, più di me, e credono, più di me, di poter trovare una strada di rinascita, ricostruzione, in grado di diventare un attrattore di economie alternative, pulite, e far migliorare la qualità della vita di tutti, non solo di qualcuno. Ho il dovere di ascoltare, conoscere e far conoscere queste storie. Di teste dure, Taranto, l’antica Taras, polis egemone in Magna Grecia, ha molto bisogno.

Nell’edizione di domenica scorsa, di Nuovo Quotidiano di Puglia, è stata pubblicata una piccola sintesi della serata del 7 luglio 2016.

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Nuovo Quotidiano di Puglia, edizione di Taranto, 10 luglio 2016

#UnoMaggioTaranto, i battiti del cuore, nell’urlo “Uno di Noi”

 

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Parco delle Mura Greche, 1 maggio 2016, Tarant0

Tante ore sotto la pioggia intermittente. Tutto il tempo nel fango tra la stanchezza e la voglia di ascoltare musica di cantautori, gruppi emergenti e gruppi rock. Eppure, la sera del concerto del primo maggio a Taranto, nel Parco delle Mura Greche, con tutta la forza possibile, la folla ha accolto Luigi Leonardi, imprenditore sotto scorta e testimone di giustizia, con un coro spontaneo: “Uno di Noi, Luigi, Uno di Noi”. Qualcosa resta, quando ascolti messaggi sulla comunicazione sociale, la politica, l’ambiente, la giustizia, la salute, i diritti umani, nel cuore di chi ascolta. Si, qualcosa resta, sempre. Un momento emozionante e toccante, perché molti di questi ragazzi avevano ascoltato le sue parole, il suo messaggio, e l’avevano capito, elaborato, metabolizzato nelle viscere, dentro di loro. Lui, era venuto a raccontare la sua vita, prima e dopo i due maxi processi contro i clan di Napoli. E, prima di salire sul palco, aveva anticipato ad alcuni giornalisti presenti il suo desiderio più grande: «Io non voglio essere un eroe. Scaricare sugli eroi le guerre, che dovrebbero combattere tutti, non vale. Io, sto cercando di dire alle persone di stare unite. L’unica arma che noi abbiamo è denunciare. Questi, non sono più forti di noi e non sono più di noi. Le brave persone sono molte di più. Non possiamo permettere allo 0.5% della popolazione di tenere una Nazione intera per le palle. Non è possibile». Quando è salito sul palco, aveva davanti la gente, ha usato la metafora dei due mari, di acqua ed energia, e, dopo aver ripercorso questi anni difficilissimi, l’anima di tutti l’ha raggiunta con le sua emozione e fierezza: «Io, non ci sto, sono venuto ad urlare “dobbiamo fare a meno degli eroi”. Nel caso contrario, significa scaraventare sulle spalle dei singoli una responsabilità troppo grossa per un uomo solo. Significa non avere il coraggio di prendersi la responsabilità insieme a lui. Significa diventare complici di quel sistema, che leva diritti a quei cittadini ed al popolo intero. Significa che, in realtà, quell’eroe è solo, come lo sono stato io per 16 anni». Il momento cruciale è arrivato con le sue ultime parole: «Io mi chiamo Luigi Leonardi e non voglio essere un eroe, voglio essere uno di voi, lottare per i miei e vostri diritti. Lo Stato siamo noi». Quasi commovente, è arrivato il coro “Uno di noi, Luigi uno di noi” e lui, accoratamente, li ha ringraziati: «Si, voglio essere uno di voi e camminare in mezzo a voi». Una reazione del genere, l’avevamo ascoltata solo quando si raccontava la vita di Vittorio Arrigoni, insieme alla mamma, Egidia Beretta. Un concetto simile, l’avevo ritrovato nelle parole di Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa, quando, dopo aver ricordato il valore umanitario della missione della Marina Militare italiana, Mare Nostrum, aveva spiegato perché il loro spirito di accoglienza non ambisce a ricevere premi speciali: «Non so se essere contenta della candidatura dei lampedusani al nobel, perchè significherebbe considerarci “anormali”, “eroi”, invece noi vogliamo rimanere normali ed umani».

In un articolo, pubblicato su Nuovo Quotidiano di Puglia il 3 maggio (nelle cronache condivise con il collega Alessio Pignatelli ed il fotografo, Luca Ingenito), iniziavo così il pezzo: “Una luce speciale negli occhi accomunava tanti messaggi lanciati il primo maggio a Taranto, al Parco delle Mura Greche, ed una voglia matta di normalità e tregua, alla quale non si poteva cedere, perchè bisognava continuare a lottare e resistere. Migrazioni, giustizia, ambiente, pari opportunità erano tematiche presenti in canzoni, esibizioni, interventi di movimenti e voci coraggiose”.

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Luigi Leonardi nella foto a sinistra di Luca Ingenito. Nuovo Quotidiano di Puglia, 3 maggio 2016

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verso il finale del concerto del Primo Maggio a Taranto, quarta edizione del 2016, e spunta l’immancabile motto “Taranto Libera”

“Animeland” dopo e prima della prima al “Roma Fiction Fest 2015”

Una colonna sonora delicata, sublime, quasi un un sussurro dei ricordi, l’ha composta Simone Martino, colorando di commozione il docu-reportage (come lo chiamerei io, arbitrariamente) “Animeland” di Francesco Chiatante, presentato al Roma Fiction Fest 2015, al Teatro Adriano di Roma, il 13 novembre scorso.

Le corde dell’emozione di chi è nato negli anni ’70 vengono toccate quando i personaggi intervistati parlano dei cartoni animati giapponesi dell’epoca. Ognuno custodisce intimamente ricordi legati a quel periodo. E quei ricordi emergono dolcemente durante la visione. Chissà come sarebbe stato divertente sbirciare nascosti e vedere all’opera Francesco intento a convincere gli intervistati a parlare del loro rapporto con manga, anime e cartoni animati. Fantastico, a pensarci. Un film documentario del cuore, dove c’è un po’ del Francesco bambino, figlio, ed adulto di oggi. Gli auguro una distribuzione adatta alla sua intuizione, magari nei festival indipendenti e creativi. Ah, e se andate in Giappone ditelo eh?? Magari vengo io a documentare voi 🙂

Qui sotto, qualche mio scatto della serata, quando ormai la tensione era finita e si profilavano atmosfere goliardiche e spensierate, il tempo di un red carpet.

 

Questa, era stata la mia presentazione, pubblicata su Nuovo Quotidiano di Puglia l’11 novembre 2015, nelle pagine della Cronaca di Taranto, città natale di Francesco:

Una vita a farsi le ossa in cortometraggi e backstage, qualche riconoscimento e soddisfazione. E, giorno dopo giorno, il tarlo nella mente di cartoni giapponesi, anime e manga ha preso forma ed è diventato il suo primo film documentario. “Animeland: racconti tra anime, manga e cosplay”, opera prima di Francesco Chiatante, tarantino, 34 anni, sarà presentata il 13 novembre al Teatro Adriano di Roma, durante il “Roma Fiction Fest”. Lui, riservato, un po’ timido, preferisce stare dietro la cinepresa. Eppure, stavolta ha l’adrenalina a mille. Saranno forse i suoi paladini di infanzia a generare tutta questa carica: Goldrake; Jeeg Robot d’acciaio; oppure Holly e Benji; o perché non Dragonball o Naruto; fino a l’Incantevole Creamy, ad Heidi o a Candy Candy. Nel 2013, dopo aver iniziato a lavorare alle ricerche cinque anni fa, festival dopo festival, ha stanato diversi personaggi famosi e li ha intervistati sul loro rapporto con i cartoni animati: «Non ricordo esattamente quale sia stata la prima intervista. A memoria, credo, il saggista Fabio Bartoli. Il lavoro è durato anni tra ricerche, contatti, interviste, riprese, materiali vari. Le ricerche su come farlo, in che maniera, come raccontare la storia, chi tentare di coinvolgere, come, cosa farsi raccontare, in che eventi andare, cosa girare. Ho effettuato riprese a Roma, Milano, Bologna, Reggio Emilia, Venezia, Lucca, Firenze, Napoli, Benevento. Le uniche tre cose pugliesi presenti nel film – scherza – dovremmo essere io, nato e cresciuto a Taranto, il grafico/animatore nord barese Giovanni Ricco e il mitico Caparezza, ovviamente da Molfetta!». Animeland, nell’intenzione degli ideatori, non si rivolge solo ad appassionati e vorrebbe offrire un contributo alla conoscenza di uno spaccato di società, dimostrando l’influenza di questa rivoluzione culturale degli anni ’70: «Ho passato lunghissimi periodi – spiega nelle note di regia – a cercare/catalogare/fotografare/filmare montagne di manga originali, vecchie riviste, oggetti oggi da collezione, una volta “per bambini”, rodovetri, disegni d’autore e a contattare giornalisti, critici, docenti universitari, fumettisti, esperti, curiosi, appassionati, cosplayer (chi interpreta i personaggi dei manga in costume), fanatici, otaku, fino ai grossi autori giapponesi. Ancora ricordo quando, durante un festival di Venezia, tentando di ottenere un’intervista con Leiji Matsumoto, storico autore di Capitan Harlock, il suo staff decise d’invitarci a cena col Maestro. Fu un incontro incredibile». Nel film: Luca Raffaelli; Massimiliano De Giovanni; Fabio Bartoli; Yoshiko Watanabe; Maurizio Nichetti; Giorgio Maria Daviddi; Caparezza; Paola Cortellesi; Fausto Brizzi; Simone Legno alias Tokidoki; Valerio Mastandrea; Shinya Tsukamoto; Michel Gondry; Masami Suda, character design/animatore di Ken il guerriero, Hokuto no Ken, Kiss Me Licia, etc; Yoichi Takahashi, autore/mangaka di Holly e Benji – Captain Tsubasa; Vincenzo Mollica; Andrea Baricordi; Marco Pellitteri; Goldy, misterioso cosplayer giapponese”

 

C’era una volta Ale, il Guerriero Buono. Lui, voleva solo respirare

Ale, nel giorno del suo onomastico

Ale, nel giorno del suo onomastico

 

Ieri, d’istinto, pensavo alla storia di Alessandro Rebuzzi. Furono la sua mamma Loredana ed il suo papà Aurelio Rebuzzi a raccontarmela. Oggi, qualcuno, di sua spontanea volontà – non so chi fosse – ha trovato questo frammento di una foto di un mio articolo, condiviso su Facebook nel 2013, ha mandato un saluto ad Alessandro come se potesse leggerlo, e mi ha fatto pensare. Un tempo, qualche coincidenza del genere l’avremmo definita un “segno”. Proprio quando molti di noi apprendono sbalorditi della scelta governativa di non considerare il danno sanitario nell’ultimo decreto salva #Ilva, Ale torna in circolazione. Altri hanno visto questa foto. Allora ho pensato di divulgare in questo post il pezzo pubblicato il 1° settembre del 2013. Non cambio nulla. lo leggerete esattamente com’era:

1° settembre 2013, Nuovo Quotidiano di Puglia, edizione di Taranto

1° settembre 2013, Nuovo Quotidiano di Puglia, edizione di Taranto

 

 

Bene, bene”. Forse, Alessandro Rebuzzi avrebbe risposto così a chi sta organizzando il primo memorial in suo ricordo. Un triangolare nel campo sportivo di Roccaforzata, domani mattina dalle 9.30. Un momento di gioia e sport, il suo amato calcio, alla vigilia dell’anniversario della sua scomparsa: il 2 settembre 2012, quando aveva 16 anni e le complicazioni di una fibrosi cistica lo strapparono alla vita. A quella terrena, se siete credenti. Parlare di Alessandro con Papà Aurelio e Mamma Loredana ti tocca il cuore, se ce l’hai, e batte, e pulsa. Perchè loro vivono solo con uno scopo: ricordare la sua voglia di vivere e la sua battaglia personale. Parlare di loro, significa parlare di questa battaglia, rispettarla, e raccontarla. Altrimenti, si farebbe esattamente quanto fece una trasmissione televisiva nazionale, mesi fa, facendosi aprire la cappella fiorita del nuovo cimitero di Talsano, filmandola e profanando moralmente la storia di questo “guerriero buono”, non riportandola fedelmente. Alessandro, seminava pensieri, tra foglietti reali o foglietti virtuali di Facebook. Uno fra tanti, è tra i preferiti dei suoi genitori: “Voglio respirare ad occhi chiusi e trovare una luce nel buio cercando di intravedere sempre quel sassolino che mi può aiutare a scalare la montagna della vita”. Chiunque fosse stato il responsabile dell’aria inquinata, scientificamente all’origine, secondo i suoi medici di Verona e Cerignola, delle sue infezioni continue, un fatto è certo: Alessandro chiedeva solo di respirare aria pulita, ossigeno sano. A febbraio 2012, lo urlava tra i giovani manifestanti, vicino al tribunale. Erano i giorni dell’incidente probatorio: «Sono un papà orfano di un angioletto – racconta il signor Aurelio – non sapevamo di essere portatori sani di fibrosi cistica. Una malattia genetica polmonare. Lo scoprimmo nei primi giorni di vita di Alessandro. Ebbe un blocco intestinale, il secondo giorno dopo la nascita. L’operazione al Giovanni XXIII di Bari durò 11 ore. E da allora ci guardò con il sorriso di chi voleva vivere». Dal 2010, le condizioni di Alessandro si sono aggravate. In altre zone d’Italia, la qualità della vita era differente. Invece, lui, passava da una infezione ai polmoni all’altra, da un ricovero all’altro: «Altri bambini, sono vivi perché respirano aria pulita. Lui non è riuscito ad arrivare in tempo al trapianto. Ha affrontato tanti momenti difficili. Però, io non ce l’ho con Dio». E dichiara una frase enigmatica e misteriosa: «Mio figlio, lo portò via chi non ha fatto il suo dovere». Saranno tre le squadre pronte a sfidarsi il 1° settembre: Taranto f.c; A.s. Martina Franca; Nuova Taras. Era un tifoso della Juventus ed Alex del Piero gli mandò due magliette l’anno scorso. Arrivarono ad agosto. Prima del suo onomastico. Pochi giorni dopo, morì. Una maglietta è a casa. L’altra è nel sarcofago. «”Per me, chi butta la propria vita non merita di essere ricordato”. O “Prendi in pugno la tua vita e fanne un capolavoro”. Lo diceva sempre Alessandro – ricorda il padre – inaugureremo un’associazione a lui intitolata il 6 maggio 2014, giorno del suo compleanno, forse all’università. E poi pensiamo di creare una fondazione». Gli ultimi tempi, sempre col cortisone e broncodilatatore. Eppure, era Alessandro a dare forza alla famiglia, a crederci, ad incoraggiarli, addirittura a preoccuparsi se i genitori prendevano troppi calmanti. Superò pure i rischi di una seticemia dopo l’ennesima infezione, l’ennesimo blocco intestinale. E se ci fosse stato il trapianto…Già se. Pochi giorni prima di morire, disse ai genitori: «Ho perso la battaglia. Non ce la farò a fare il trapianto. Sto morendo». Ora, riposa tra orchidee ed anthurium, lontano dai fumi, in un giardino dove Aurelio e Loredana parlano con il figlio e lo ricordano: «Sognava una Taranto verde. Sentiva parlare dei bambini dei Tamburi, ricoverati fino a 12 volte in un anno se vivevano vicino alle fabbriche, molto meno se vivevano lontano. Noi, la mattina, nei pressi dell’Istituto Pacinotti, dove lui studiava Informatica, trovavamo le polveri di minerale. L’ultimo anno frequentava il secondo superiore. Si assentava perchè doveva essere ricoverato. E quando stava bene si faceva interrogare ed aveva ottimi voti. Venne rimandato in tutte le materie solo perchè era costretto ad assentarsi. Era felice di poter studiare. Lo faceva in ospedale. Era orgoglioso di farlo». Venti ricoveri e venti viaggi: «Quando potrò seguirlo, spero di potergli dire “Taranto non è più una città inquinata. Hai vinto la tua battaglia e nessun altro ragazzo morirà mai più». Questa, è la storia di Alessandro Rebuzzi, il guerriero buono. Lui, voleva solo respirare.

Guai a toccarli la sua squadra del cuore

Guai a toccargli la sua squadra del cuore

Tarallucci, vino ed Orecchiette e Cime di Canapa :-)

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Un momento di gioia

Oh ragazzi ma cosa avete capito? Sono sempre la stessa, non fumo e non mi piace alcun tipo di combustione. Oggi, infatti, voglio raccontarvi delle potenzialità sorprendenti di una coltivazione ingiustamente demonizzata: la Canapa. Usata come fibra a lungo, oggi viene ancora ignorantemente associata solo alla cannabis delle canne e delle droghe leggere in modo univoco e limitante. Errore. Questa pianta ha poteri incredibili, purifica i terreni inquinati e potrebbe diventare un’occasione di riconversione di quei campi contaminati di diossine e metalli pesanti, della Masseria Carmine, alle pendici dell’Italsider prima, dell’Ilva poi, di Taranto. Un giorno, magari, qualcuno racconterà la saga di questa famiglia, i Fornaro, capaci di attraversare tutti i sentimenti della vita, il dolore, la rabbia, il sogno, la speranza, l’ottimismo. E capaci di farlo conquistando il primo raccolto della canapa di fine settembre. Certo, ora tocca ai ricercatori studiare le reazioni dell’esposizione agli inquinanti. Nel frattempo, in queste terre si continua a credere tenacemente di poter avere un futuro diverso e di volerlo avere in una terra alla quale sono radicati come se ci fosse un invisibile cordone ombelicale.

Siamo in attesa, e Vincenzo e famiglia lo hanno promesso. Se sarà possibile, lanceranno “Orecchiette e Cime di Canapa”. Ed aggiungiamoci pure tarallucci, vino e buon olio d’oliva e siamo apposto!

Uliveti

Uliveti

Io, in uno scatto del generoso Pasquale Reo nel giorno del raccolto

Io, in uno scatto del generoso Pasquale Reo nel giorno del raccolto

Il raccolto del 20 settembre 2014, nel mio pezzo pubblicato su Nuovo Quotidiano di Puglia il 21 settembre

Lo stesso cielo di aprile, quando quel ferro di cavallo del piede anteriore portò fortuna e pioggia, facendo attecchire la semina, ha salutato l’atteso giorno della trebbiatura di fine estate. Ieri mattina, nei terreni della Masseria Carmine della Famiglia Fornaro, lungo la via della Transumanza, a Paolo VI, il primo raccolto della canapa è stato vissuto come un grande evento simbolico di rinascita, ripartenza, ottimismo. Un raccolto, con il cuore, con le mani e con la trebbiatrice, delle piante cresciute tra la primavera e l’estate. Circa un chilo, è già in viaggio verso i laboratori di Rutigliano, del Cra, Consiglio di ricerca per la sperimentazione in agricoltura, dove tutte le parti della pianta, radice, foglie, fiori e semi, terminato il campionamento del terreno pre-semina, dopo l’esposizione nei terreni contaminati, alle pendici dell’Ilva, saranno analizzate nei minimi particolari. Stiamo raccontando di quei territori dove ormai c’è il divieto di pascolo e coltivazione e dove un tempo pascolavano le pecore, abbattute dopo la scoperta delle tracce di inquinanti e diossine.

Amici nel giorno del raccolto

Amici nel giorno del raccolto

In mezzo al campo. Non vi dico cosa è successo alla mia gonna. Pare anticamente potesse essere un modo semplice di raccolta (scherzo...non troppo!)

In mezzo al campo. Non vi dico cosa è successo alla mia gonna. Pare anticamente potesse essere un modo semplice di raccolta (scherzo…non troppo!)

La strage di quegli agnelli ha segnato fasi cruciali dei tempi recenti, iniziando con l’incidente probatorio e finendo con l’inizio del processo contro l’acciaieria. Ed allo stesso tempo ha rappresentato un punto di non ritorno e di riconversione economica di una famiglia di ex allevatori di 4 generazioni ed un centinaio d’anni, diventata suo malgrado il simbolo della reazione ai danni dei disastri ambientali. Il patriarca, Angelo Fornaro, 70 anni, chiamato Don Angelo, non lascerà mai questa terra, alla quale un tempo era collegata la vecchia azienda “Zitarella” di suo padre, espropriata quando fu costruito l’Italsider. Oggi, insieme ai suoi figli, vive emozioni contrastanti, cercando di far prevalere la fiducia: «Una giornata nuova, con una speranza nuova, dopo tanti guai passati. Un giorno diverso. Auguriamoci sia un’apertura al futuro, soprattutto dei miei nipotini. La malinconia c’è sempre. Non si possono dimenticare tutti i sacrifici di anni, bruciati in pochi secondi. La canapa potrebbe indicarci una strada utile ed un poco di serenità, smuovere le cose». Erano accorsi amici, parenti, interessati al progetto di ricerca. Macchine fotografiche, smartphone e tablet erano puntati sulla trebbiatura, e perfino un drone documentava dall’alto.

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drone in azione

Drone in pausa

Drone in pausa

In corso, c’è adesso un vero e proprio esperimento scientifico, perché solo i test potranno far decidere in quale direzione andare, nei prossimi 4 o 5 anni di sperimentazione, a fini di fitorimedio disinquinante e bonifica di metalli pesanti. Tra sogno ardito, utopia e speranza nel cassetto, Vincenzo Fornaro non perdeva il sorriso, trovando il tempo di fare una battuta: «Adesso, la stocchiamo e, quando avremo il via libera, vedremo. Un giorno, cucineremo orecchiette con le cime di canapa!».

Drone sopra la mietitrebbia

Drone sopra la mietitrebbia

Destinazione Rutigliano, dove si trova il laboratorio del Cra, Consiglio di ricerca per la sperimentazione in agricoltura. I risultati dovrebbero arrivare entro 20 giorni. In sostanza, bisogna capire se, nel canapulo di un campione di circa un kg del totale della canapa raccolta, finisce l’inquinante o no, e scegliere se percorrere la strada del tessile, al momento prioritaria, o della bioedilizia, dei biocarburanti e, infine, nella più rosea delle prospettive, della produzione a scopi alimentari. Le anime di questo primo progetto scientifico, denominato “C.a.n.a.p.a.” (Coltiviamo azioni per nutrire, abitare, pulire l’aria) sono, insieme alla Masseria Carmine della Famiglia Fornaro, Canapuglia, Abap (Associazione biologi e ambientalisti pugliesi) e consulenti di settore. Stavolta, sono stati 3 ettari, l’anno prossimo si punta ai 30 ettari totali, se possibile. E molti agricoltori con gli stessi problemi di inquinamento vorrebbero ripetere l’esperimento. «Abbiamo seminato la speranza, oggi la raccogliamo. Abbiamo inteso lanciare un segnale forte alle istituzioni – afferma Vincenzo Fornaro – e vogliamo realizzare i fatti senza l’aiuto di nessuno. Ci copiano addirittura i progetti e ci fa piacere. La Regione Puglia ad esempio è andata a seminare a Brindisi, vicino la Centrale di Cerano, a maggio, consumando parecchia d’acqua, nel mese sbagliato di semina ed ottenendo piante alte la metà delle nostre». Le piante di canapa della Masseria Carmine sono cresciute in modo difforme, a causa di inquinamento e periodi di siccità. Tuttavia, il risultato appare soddisfacente: «La coltivazione è avvenuta nel modo più naturale possibile, senz’acqua, senza concimazione. La pianta è auto-disinfestante ed è miglioratrice del terreno. Un’ottima coltura di rotazione. Se potessimo ritornare a coltivare il grano, il raccolto aumenterebbe del 20, 30%. E se il seme della canapa dovesse risultare non contaminato, come l’ulivo, potremmo utilizzarlo. Eppure, oggi, se noi togliamo inquinanti, e l’industria inquina, possiamo bonificare poco». Al campionamento della coltura è particolarmente interessato Marcello Colao, ingegnere di Abap e Canapuglia: «Cercheremo di capire se nel primo anno sperimentale ci sono stati i primi risultati. I processi naturali richiedono tempi biologici e la sperimentazione deve essere spalmata nei 4, 5 anni. Però, vuole essere un segnale forte di cambiamento, una rivoluzione dolce dal basso. C’è stato molto interesse e curiosità e pochi attacchi legati al dubbio. Quando si vuole, è possibile fare le cose. Speriamo nell’etica di fondo».

Marcello Colao

Marcello Colao

Vladimiro Santi Spanna, coinvolto nello stesso Progetto “C.a.n.a.p.a”, confidava l’auspicio di ottenere un riconoscimento ed i certificati verdi, rendendo i territori redditizi. E Claudio Natile, fondatore e presidente di CanaPuglia, ha illustrato le caratteristiche della pianta, non iperaccumulatrice, e rimediatrice: «Nel fiore, ci sono 600 sostanze, solo 80 dei cannabinoidi, poi terpeni, terpenoidi, flavonoidi. Dobbiamo scoprirla ancora. Nessuno ha mai fatto ricerca, era stata proibita e relegata in pochi studi di freelance. Dobbiamo capire qual è il suo potenziale, nel primo anno di coltivazione ai fini di bonifica. E verificare se sarà un rimedio ed un reddito. Abbiamo stimolato la Terra dei Fuochi, il bresciano ed altri territori inquinanti. Diversi dottorandi e studenti vorrebbero collaborare». Alla possibile filiera commerciale si legherebbe, dunque, un fronte di ricerca a livelli universitari ed innovazione, oggi senza appoggi a Taranto, domani, chissà.

Da sinistra, Vladimiro Santi Spanna, Claudio Natile, ed io mentre cercavo di capire le centinaia di essenze di questa pianta tutta da scoprire.

Da sinistra, Vladimiro Santi Spanna, Claudio Natile, ed io mentre cercavo di capire le centinaia di essenze di questa pianta tutta da scoprire.

Un passo indietro al momento della semina, del 5 aprile scorso, ed ai miei pezzi dell’edizione del 6 aprile 2014 (dopo aver partecipato al camp dell’Officina delle Idee, a marzo, non si sono arresi)

La cornamusa di Shambhu eseguiva “L’Inno dei Mohicani” ed improvvisazioni sulla rinascita, quando ha iniziato a piovere provvidenzialmente. Il ferro di cavallo, trovato nei campi, era stato un buon segno: «Porta fortuna, se è del piede anteriore – raccontava Angelo Fornaro, 70 anni, forte e commuovente attaccamento alla terra, della sua famiglia da 4 generazioni e 100 anni – i bambini devono vedere, provare le gioie. Dopo aver conosciuto i dolori dell’abbattimento delle pecore». Laddove un tempo si coltivavano grano, foraggio, avena, patate, pomodori, ortaggi, si tenta la via della canapa, ennesima virata dovuta al Siderurgico: «Mio padre Vincenzo, a 68 anni, morì di crepacuore quando l’Italsider espropriò la sua la azienda “Zitarella”, vicino alle colline frangivento, 110 ettari. Dopo la distruzione, di Ilva e politici, dobbiamo ripartire ed essere fiduciosi». Ha perso sua moglie Rosa di tumore al seno. Un figlio ha avuto un problema ad un rene. E si impone di resistere, con dignità: «Morirò qui. Non abbandonerò questa terra, fino all’ultimo, con i miei figli, Maria, Vittorio, Vincenzo, Rosanna, ed i miei nipoti».

Angelo Fornaro il patriarca

Angelo Fornaro il patriarca

Entusiasmo incontenibile di Vincenzo Fornaro

Entusiasmo incontenibile di Vincenzo Fornaro

Nel frattempo, si può contare sull’uliveto, resistente ai contaminanti. Sognando di trasformare il maneggio in un’associazione.

Una coltivazione di speranza, una ripartenza della storica Masseria Carmine, nella via della Transumanza dell’attuale campagna di Paolo VI, una rinascita di un orizzonte di sogni, prospettive di cambiamento e nuovo futuro, una resistenza operosa e costruttiva. Il sorriso, ieri mattina, è tornato nei volti della famiglia Fornaro, quando è iniziata la prima semina di canapa, a scopi scientifici, fitorimedianti, disinquinanti. Alcuni semi sono stati lanciati ritualmente. Ed uno alla volta i due trattori agricoli hanno continuato ad arare con la seminatrice pneumatica. La pioggia provvidenziale farà attecchire il seme. Vincenzo Fornaro, con il padre ed i fratelli, era un allevatore. L’inquinamento ha stoppato l’attività di 4 generazioni, con la strage degli agnelli contaminati di diossina. Ora, si confida sull’udienza preliminare di giugno e la possibilità di risarcimento nel processo contro l’Ilva: «É il momento di rinascere – dichiarava, ottimista – speriamo la canapa possa disinquinare “il cervello” dei tarantini. L’industria è un modello di sviluppo superato, bisogna tornare alla terra. Contiamo di creare l’indotto, tanti posti di lavoro, una svolta, un’alternativa. L’Ilva è il passato e non può coesistere con la città». Si reagisce, non si molla e si vuole vivere, con condotta esemplare, iniziando con 3 ettari. La fase di studio e ricerca scientifica si avvia in questa masseria, “simbolo” dell’incidente probatorio e dell’inchiesta della Magistratura, in collaborazione con il Cra, Consiglio di ricerca per la sperimentazione in agricoltura: «Il progetto sperimentale durerà 3, 5 anni, sulla canapa come fitorimedio – spiegava Claudio Natile, di Canapuglia – un test fu fatto a Chernobyl. La letteratura scientifica ha approfondito il suo impiego in fitorimediazione e bonifica di metalli pesanti, diossine ed altre sostanze. Dopo il campionamento pre-semina, saranno fatte le analisi ed un altro campionamento post-raccolta». Trebbiatura e raccolto saranno vissuti con entusiasmo entro fine estate. E, solo dopo aver studiato eventuali effetti di inquinanti sul canapulo, sarà possibile ipotizzare quale filiera sviluppare, nel tessile, in bioedilizia o altri campi. «Verranno fatte analisi su terra, radice, foglie, fiori, semi – ribadiva Marcello Colao, ingegnere di Abap e Canapuglia – si tratta del primo esperimento ufficiale. Il Cnr aveva studiato la bonifica con la canapa, adatta ad abbattere cadmio, cesio, nichel, cromo». In linea con le norme europee, la canapa selezionata può essere ammessa solo con un irrisorio ed ininfluente 0,2% di THC, tetraidrocannabinolo, principio attivo della cannabis.

Piantagione di Canapa

Piantagione di Canapa

Le caratteristiche della varietà italiana, in gergo dioica, la Carmagnola, renderebbero invece ancora difficili le coltivazioni. «In questa fase sperimentale – illustrava Bruno Franzone, consulente dell’Agricola Service – si usa il seme francese, varietà monoica “Futura 75”. Quindici giorni è durata la lavorazione prima della semina. C’è stata un’aratura in tre fasi, con dischi, ripuntatore, fresatura. Tra 120 giorni, ci saranno le prime piante. Monitoreremo tre momenti fino al raccolto. L’Assocanapa mette insieme le aziende e punta al seme di provenienza certificata. La filiera potrebbe occuparsi del tiglio, fibra tessile con scopi industriali».

La Masseria Carmine

La Masseria Carmine

Un ragazzo, vicino ai cavalli mi disse "Io non guardo mai verso l'inferno"

Un ragazzo, vicino ai cavalli mi disse “Io non guardo mai verso l’inferno”