Film in riva al mare: Spiaggetta Club di Taranto nel Circuito D’Autore Estate

Tra 28 sale cinematografiche, inserite nel “Circuito d’Autore Estate” di Apulia Film Commission in Puglia, c’è la “Spiaggetta Club”. Quando l’ho scoperto, ho iniziato subito ad immaginare dove avrebbero installato lo schermo e mai avrei intuito di trovarlo esattamente al centro del bagnasciuga di una spiaggia dunale, nell’isola amministrativa di Taranto.

Conoscendo quei pazzi sognatori di Adriano e Luciano Di Giorgio – uno è proprietario del Cinema Teatro Orfeo – avrei dovuto arrivarci, eppure la sorpresa c’è stata.

Hanno tranquillamente consentito a tutti i bagnanti incuriositi di trattenersi oltre l’orario di apertura, dopo una calda giornata di mare, ed alle 21 i bagnini hanno iniziato a gonfiare letteralmente, si gonfiare, lo schermo, alla stregua di un materassino.

In pochi minuti, lo schermo era pronto ed ancorato ed ha resistito pure ad una imprevista raffica di vento, quando sulla guardiola di avvistamento sventolava bandiera bianca.

Gli spettatori, il 10 agosto, hanno visto “Metti la nonna in freezer”, commedia sociale, grottesca, surreale, opera prima di Giancarlo Fontana e Giuseppe Stasi, rivelatrice di una vita di mezzo dove ogni giorno provano a resistere tanti, “non più giovani”, giovani professionisti, eternamente precari, in una società dove bisogna inventarsi il mestiere e non si riesce più ad eguagliare i guadagni di generazioni precedenti e pensionati di oggi.

Lo hanno fatto comodamente sdraiati sui lettini, e, dopo pochi minuti, nessuno più pensava alle Perseidi, in fondo il picco di stelle cadenti ci sarebbe stato tra il 12 ed il 13 agosto.

L’operazione è stata completamente sostenibile, perché a fine proiezione lo schermo è stato sgonfiato e riposto in cabina.

Il critico cinematografico, Guido Gentile, ha introdotto e chiuso la serata: «Il film di due registi esordienti riprende uno spunto di cronaca. Può sembrare folle, pare sia successo a Cuneo. Il passo narrativo, in chiave romanzata, di questi nuovi registi cresciuti con un ritmo nella testa molto americano riprende la commedia all’italiana ed ha una chiave di “black commedy”, insolita nella cinematografia italiana. Le situazioni sono al limite del paradossale, con un pizzico di macabro. Geniale regalare questo ruolo a Barbara Bouchet. La commedia è romantica e rovescia i giochi di forza…(…)».

Ps: Lo stesso, in questo periodo sta conducendo “Gli incontri con il critico” al Maxxi Village in via Lago di Pergusa 55.

Il Teatro Orfeo compie 100 anni, tra amici, mentori e omaggio di Clarizio Di Ciaula ad un Laclos ispirato all’ammiraglio Francesco Ricci

I fonatori del Cinema Teatro Orfeo, i Fusco, in una foto d'epoca messa a disposizione del programma del Centenario

I fondatori del Cinema Teatro Orfeo, i Fusco, in una foto d’epoca messa a disposizione del programma del Centenario

 

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Un riflettore proiettava la frase sul Centenario intorno alla data della fondazione

Stupore, Eleganza, Serietà, Impegno,Orgoglio, Sogno, Commozione, Speranza, e Amicizia

Il 27 febbraio 2015, ho lasciato il Cinema Teatro Orfeo con queste parole nella testa, negli occhi, nel tatto, in questo ordine, spontaneo, casuale, non pensato.

E, così, provo a metterle a nudo.

Si celebrava il primo Centenario di uno dei pochi teatri tarantini, degli anni d’oro del secolo scorso, sopravvissuto al disinteresse, all’abbandono ed all’oblio di chi ha dimenticato la sua anima culturale a lungo. Tanto a lungo. Quel palco, è stato discreto testimone di tantissime emozioni e, stavolta, ha osservato i preparativi del Centenario e di chi ci ha creduto. Prendendo e donando energia, in un flusso armonico, vitale, contagioso, creativo.

Era già capitato la sera del primo evento in programma, la proiezione della pellicola del ’58, “Promesse di Marinaio”. E stava accadendo ancora.

Stupore

Adriano e Luciano Di Giorgio quasi non credevano di essere proprio loro ad essersi lanciati in questa scommessa. Su quelle poltrone rosse, bambini, si scoprivano stupiti, sorpresi, insieme alla loro famiglia, alla loro mamma, ai loro amici, ad affascinarsi quando sentivano parlare di teatro. Ed oggi quelle stesse poltrone potranno sopravvivere, vivere, e brillare, se loro riusciranno a vincere quella scommessa.

Una scommessa di un teatro di tutti, un teatro amico, un teatro della città.

Quasi inteneriva, vederli alle prese con le fotografie di Beniamino Ingenito, sotto il palco tutta la sera. Quando, insieme alla mia collega, Marina Luzzi, addetto stampa del Centenario, si apprestavano a premiare chi, con le sue stagioni e cartelloni, fa vivere questo teatro. E soprattutto chi in questo teatro ci ha messo l’anima, quando era il proprietario: Sabino Dioguardi, il loro mentore.

Quando lo stesso Sabino ha ricevuto “L’Orfeo”, ha ricordato alcuni aneddoti della storia di quella ribalta ambita, rievocando Anna Fougez. Questa diva del tabarin, riporta alla mia memoria il lavoro di Leo Pantaleo, “Anna Fougez, il mondo parla, io resto”, nel secondo allestimento al quale io ho potuto assistere intorno al 2007. A catena, la suggestione di Sabino, innesca un viaggio nel tempo, fino a quando nel 2000 lo stesso Leo mi convinse a fare la comparsa di una nobile decaduta nel cortometraggio “La Ballata alla Città dei due mari” con le musiche di Pino Russo. Mi ero messa in ordine i capelli e Leo arrivò a scompigliarli, perché dovevano essere arruffati. Mi fece indossare uno dei suoi costumi d’epoca, bordeaux. Ah, quante ore passate sul palco dell’Orfeo a girare quella scena, non recitata, ma solo diciamo mimata, destinata ad occupare pochissimi istanti del montaggio. E, chiaramente, questa follia non l’ho mai più ripetuta 🙂

Eleganza

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Lo spettacolo teatrale del Centenario era “Laclos e le sue Relazioni Pericolose” (co-prodotto insieme all’Associazione culturale Murgiateatro, tornato sulle scene dopo i primi allestimenti romani della scorsa stagione teatrale, con un nuovo cast). E mi porto ancora negli occhi l’eleganza ed i colori dei costumi di Annalisa Milanese, o la raffinatezza essenziale delle scenografie, osservate quando si è alzato il sipario e quando i tecnici hanno iniziato a smontarle davanti ad alcuni spettatori curiosi.

 

Serietà

Quando si sceglie di scrivere un testo, ispirandosi a romanzi celebri come il libro epistolare francese, le Relazioni Pericolose, di Laclos, il rischio di paragonarlo alle messe in scena in prosa e cinema dell’opera originaria non si riesce ad evitare, facendo infrangere il lavoro più meticoloso o serio nella rigida e comprensibile visione disciplinata del purista. E certamente non si può escludere non sia accaduto in questa occasione.

Alla destra, Laclos

Alla destra, Laclos

Questo lavoro, definito narrazione scenica, nel programma di sala del Centenario, è un testo del regista ed autore dell’allestimento, Clarizio Di Ciaula, ispirato a quel romanzo. Con il quale si omaggia l’autore del libro originario, il personaggio, raccontando gli ultimi mesi di vita a Taranto nell’800, in veste di generale napoleonico. E dove con il pretesto narrativo dell’oppio si da vita ai personaggi delle “Relazioni Pericolose”. Riproposti, dunque, con un taglio, come dire, visionario, caratterialmente personalizzato ed inedito. Con lo sguardo dell’autore del testo ed i suoi messaggi, vengono fuori una Marchesa De Marteuil, alias Ketty Volpe, esuberante, carismatica sulla scena, un generale Laclos, Cesare Pasimeni, sobrio, assorto nei pensieri, ed un gruppo di attori (Gianluca Busco, Antonia Chiatante, Francesco Cassano e Diletta Carrozzo, selezionati nei mesi scorsi in un laboratorio teatrale eccetto chi aveva partecipato all’allestimento precedente). Mi ha colpito molto notare il rispetto degli attori nei confronti del loro regista. Si sono messi nelle sue mani, abbandonati alla sua visione e mostravano di sentirsi parte di qualcosa di serio, armonico, condiviso e professionale. Una regia vera fa la differenza tra coralità o caos, in un lavoro teatrale, dove spesso essere grandi attori senza una buona regia può rovinare tutto.

Orgoglio

Quando Clarizio Di Ciaula è salito sul palco, sembrava quasi incrociare con fierezza ed orgoglio gli occhi di qualcuno. Non sappiamo chi guardasse. Sicuramente, ha dedicato questo traguardo e il riconoscimento ricevuto a sua madre ed ha raccontato l’aneddoto della nascita di questo spettacolo: «Una persona, inconsapevolmente, mi ha consentito di avere una vaga idea di cosa potesse essere un ufficiale di levatura, un letterato, un uomo d’armi. L’ho incontrato e mi ha entusiasmato per signorilità, disponibilità e straordinaria competenza. Questa sera è qui, lo ringrazio ed è l’ammiraglio Francesco Ricci». Oltre ad aver ispirato il soggetto di Laclòs, l’ammiraglio, curatore del Castello Aragonese di Taranto, affascina spesso i visitatori con le storie del generale Dumas e della prigionia nella fortezza, poi raccontata nel romanzo del figlio omonimo, “Il Conte di Montecristo”.

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Marina Luzzi, Adriano Di Giorgio, Clarizio Di Ciaula, Luciano Di Giorgio

Impegno

Tutto l’impegno messo nei preparativi a quanto pare porterà ad alcune rappresentazioni nei matineé, rivolti agli studenti delle scuole tarantine e consentirà a questo allestimento di continuare ad esistere.

Sogno

In una città dove non si sognava più, i fratelli Di Giorgio hanno offerto la proiezione di “Promesse di Marinaio”, con le musiche e canzoni di Lelio Luttazzi, ed hanno annunciato la volontà di far crescere la prima “Compagnia Stabile del Teatro Orfeo” di Taranto.

Commozione

La mia, di chi raccoglie e racconta l’emozione di quei due momenti, inseriti in un cartellone di eventi dei prossimi mesi. Alcune locandine si scorgono dietro alcuni dei quadri esposti di Alfredo Pompilio, lo stesso autore dei disegni in sala. 

Speranza

Il messaggio di poter osare e credere in qualcosa di diverso ed allo stesso tempo di famigliare, intorno al quale ruotava una Taranto fiera e vitale, diventando perno di una filiera teatrale ed artistica con maestranze solo sopite e con un grande potenziale.

tra le tante parole c’era Amicizia, ma questa la lascio nel mistero di chi sa cosa voglia dire. E, quindi, cali il sipario e si spengano i riflettori.

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“The Imitation Game”: l’enigma si risolve solo rompendo lo schema, in storia e storie di vita

A volte, ci si trova davanti a storie dentro la Storia della Seconda Guerra Mondiale capaci di unire anime ad epoche ed a mettere in luce il particolare dentro l’universale. Il film è magnetico. Entri dentro i segreti raccontati con sfumature di romanzo storico con quella voglia inarrestabile di approfondire i misteri di Enigma e di chi cercò di decifrarlo con una macchina per sconfiggere Hitler ed i linguaggi in codice dei nazisti. Ti ritrovi a rabbrividire e ad appassionarti. La regia ti porta per mano e ti guida dentro l’umano e dentro la Storia dell’umanità. E poi è l’amore a lasciarti la scia più profonda, con i suoi dolori, le sue vie d’uscita, le sue chiavi di svolta. Stavolta le musiche di Alexandre Desplat hanno avuto un altro ruolo, meno fiabesco, più epico e trionfale. Due filoni narrativi si intrecciano in tre fasi della vita, tra ruoli nel mondo e ruoli nell’inconscio raccontandoci come si può vincere una guerra senza vincere sul fronte dei diritti civili ed umani sotto i propri occhi. Salvo poi evolvere con tempistiche troppo lunghe per chi doveva scegliere tra vivere la sua omosessualità o esprimersi nella matematica sapendo di non poter rinunciare a nulla di se.

Locandina diffuse nei cinema

Locandina diffusa nei cinema

Lacrime, stelle e scienza con gli occhi dell’amore, in “Interstellar”

Lo devo dire ora, a qualcuno, le ore di visione di Interstellar sono una illuminazione, il film ti rapisce, il patema è totale, sei dentro la storia senza alcun bisogno di un 3d, fotogramma dopo fotogramma la premessa di partenza, le domande della scienza, lasciano il passo alla chiave di tutto: l’amore. Smetti di chiedertelo e ti lasci trasportare. Una storia ricca di metafore del nostro presente di fughe ed istinto di sopravvivenza. Un groppo in gola, ancora una volta. Qualche lacrima forse ancora deve uscire. Se dovessi legare i segnali del film alla vita di tutti i giorni, spererei nell’infinito potere dell’amore, in tempo. Un film di quelli dei quali non si può dire davvero nient’altro. Buona Notte.

“The Judge”: Cuore, Padri, Figli e groppo in gola. Il legal movie è un dettaglio narrativo

Al buio, all'Orfeo di Taranto

Al buio, all’Orfeo di Taranto

Torno a casa e non ho ancora ritrovato l’equilibrio. The Judge ti mette a nudo. Pensi di andare a vedere un legal thriller movie, ed invece ti trovi davanti ad un film su padri e figli. Questo cambia tutta la prospettiva e ti fa ritrovare con il groppo in gola solo a ricordare alcuni momenti di questa storia. Una regia capace di restituirci l’anima di ognuno dei personaggi chiave. Si affida alla storia, ai caratteri, alle radici, ai diversi significati dei luoghi come il bel cinema d’autore, dove l’effetto speciale è l’emozione, arricchita grazie ad una colonna sonora indovinata. Nella vita, si ride, si piange. Un film sulla vita. E se dovesse ricevere qualche premio sarebbe un giusto premio.

“La mafia uccide solo d’estate”, un docucunto musicato

Mi ero persa questo film nelle sale, quando ho scoperto l’altro ieri di poterlo recuperare nella rassegna del “Lunedì del Cinema Universitario” al Cinema Savoia di Taranto.

 

Se potessi immaginare una definizione ideale, mi piacerebbe pensare al film “La Mafia uccide solo d’estate” come ad un “Docu Cunto Musicato”, ricordando la tradizione delle favole siciliane su epiche gesta.

Dentro di se, racchiude: il fascino del cantastorie con i ritmi travolgenti delle musiche di Santi Pulvirenti; i canoni del romanzo storico perché racconta storie vere con un pizzico di poesia, fantasia, un comico ed ironico sarcasmo, le radici delle pantomime, la satira; il documentario, con sequenze di filmati d’epoca sulle stragi di Mafia.

La voce narrante è dello stesso attore protagonista, Pif, Pierfrancesco Diliberto, regista, soggettista e co-sceneggiatore.

Ci accompagna, insieme alla colonna sonora, nella sua crescita di bambino, Arturo, alle prese con la Mafia di Palermo e Roma.

La semplicità di una cotta verso una bimba, Flora, viaggia parallelamente alle storie dei personaggi di Mafia ed Antimafia, ognuno capace di lasciare un insegnamento di vita nelle tappe della vita.

Si sorride, si ride ed ogni tanto brividi e pelle d’oca si impadroniscono di te, quando il protagonista osserva la tragicità della Mafia nella vita reale.

Il ciel sereno ti avvolge fino a quei fulmini crudeli, dirompenti, raggelanti, ciclici nel film.

Un episodio meraviglioso riguarda Arturo e la sua intervista al generale Dalla Chiesa, come giornalista per un giorno, vincitore di un concorso scolastico.

Aveva chiesto al generale perché era a Palermo, se come diceva Andreotti la criminalità era solo in Campania e Calabria. E quando avevano ammazzato pure il generale, si era confidato con il suo amico giornalista, affittuario di casa del nonno, e aveva confessato il suo rammarico perché non aveva potuto chiedere scusa al generale dopo quella domanda. Avrebbe voluto chiedere ad Andreotti perché aveva mentito, però al funerale lui non c’era e quella domanda non aveva potuto fargliela più.

Francesco, il giornalista adulto, gli da un insegnamento: scegliere fonti autorevoli quando deve scrivere un articolo.

Un nodo in gola…quando Arturo, diventato padre, porta suo figlio a rendere omaggio a tutte le vittime delle stragi di Mafia.

In quel momento, si piange e la realtà storica ti trafigge durante il finale di questo romanzo storico.

Un bel film d’autore, una bella pagina di cinema destinata a lasciare un segno.

La sua essenza potrà coglierla fino in fondo solo chi sceglierà di vedere il film. Una chiave nuova di educazione e racconto della Mafia, con un linguaggio moderno, dinamico, adatto alle nuove generazioni.

 http://www.lamafiauccidesolodestate.com/

http://www.01distribution.it/film/la-mafia-uccide-solo-d-estate

Uno “Zio Vanja” tragicomico nell’allestimento di Marco Bellocchio all’Orfeo di Taranto

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Piergiorgio Bellocchio e Sergio Rubini

 

Seconda fila in galleria del Teatro Orfeo, con vista su “Zio Vanja”, testo originario di Anton Cechov, drammaturgo dell’800, russo, adattamento e regia di Marco Bellocchio. Prima o poi, un classico della prosa, del genere, va visto. In questo caso , mi è capitato in occasione della stagione di prosa del Comune di Taranto, in collaborazione con il Teatro Pubblico Pugliese. Non posso paragonarlo con nessun allestimento del passato, e non ho mai letto il dramma. Quindi, il mio, è un battesimo e potrei definirmi come la spettatrice di un classico visto con gli occhi ed i punti di vista del 2014. Innanzitutto, la conferma mi è arrivata chiacchierando con l’attore, Renato Forte, ed il mitico Sabino Dioguardi, già nella proprietà del Teatro in passato, grande cultura teatrale: il lavoro allestito, presentato a Taranto l’8 e 9 gennaio, ha rispettato i canoni della prosa tradizionale, salvo alcune sfumature.

Quelle virgole e sfumature ho provato ad immaginarle. Il regista cinematografico a quanto pare realizzerà un film su “Zio Vanja”, e forse sta incominciando a sondare le reazioni del pubblico con un percorso inverso: prima il teatro/set ispirato alle masserie pugliesi pare; poi il film, presto in lavorazione. Una strategia culturale interessante ed insolita. Lavorando in simbiosi con Giovanni Carluccio, ha pensato a scene essenziali, in legno, effetti sonori e di luce – nei due atti ed in tutto quattro quadri scenici – dove le musiche di Carlo Crivelli entravano nella storia timidamente come sottofondo della meditazione dei personaggi.

Nel primo atto, il palco è tutto di Sergio Rubini, nei panni di questo depresso e frustrato Zio Vanja, ex proprietario terriero finito in disgrazia e divenuto tenutario di una vecchia dimora famigliare. Tutto ruota intorno ai suoi sfoghi sarcastici sul conformismo della sua epoca, capace di bollare come stravaganti i creativi e promettenti geni incompresi.

E nella mia mente frullavano gli slanci polemici di tanti valenti talenti della nostra epoca lasciati ai margini del loro “tempo”.

Non cala mai l’attenzione. E grazie alla sua presenza scenica, si ascolta, ci si immedesima e si pensa ai rimpianti dell’esistenza ed alle occasioni sfuggite o sfuggenti.

A scuotere l’immobile landa, forse pugliese, forse russa, sicuramente isolata, arriva il vedovo, risposato con Elena (Lidiya Liberman) della sua defunta sorella, divenuta, grazie ad un suo sacrificio, unica proprietaria, quando era in vita.

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Arriva Herr Professor irrompendo nella platea

 

Al suo tentativo di sminuire i diritti della loro figlia, Sonja, (Anna Della Rosa) cercando di vendere la tenuta, lo Zio Vanja reagisce con rabbia tragicomica, cercando di sparare contro Herr professor, Alexandr Serebrijakov, alias Michele Placido.

Vissuto come gesto di follia, è solo il prologo del ritorno ad una avvilente normalità cristallizzata.

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In piedi, Michele Placido

 

 

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Nella storia, un altro personaggio, il dottor Astrov, (Piergiorgio Bellocchio), entra con lo scopo di provocare e spezzare cuori: di Zio Vanja, il quale lo vede praticare l’infedeltà, alla quale lui stesso ambiva, con la bella Elena; e Sonja, innamorata e non corrisposta. Un personaggio di disturbo, interpretato forse con toni troppo enfatici, rispetto al realismo della situazione.

Quando è il personaggio chiave di Zio Vanja/Sergio Rubini, a dominare, nel primo atto, quasi non ti accorgi delle capacità attoriali del resto del cast.

Quando è il resto del cast a dover catturare l’attenzione del pubblico, qualcosa stona e non convince pienamente, disperdendo le emozioni di alcune scene, miranti originariamente ad un forte impatto amaro e severo sullo spettatore, ed invece scivolate via, innocue, come è capitato con il bacio fedifrago tra Elena ed il dottore.

Un solito Rubini ed un solito Placido, a questi protagonisti del dramma di Cechov conferiscono: in un caso una connotazione più tragicomica dell’originale, lasciandoci con il quesito aperto su una eventuale scelta registica, sull’improvvisazione dell’attore, o su un inevitabile incidente interpretativo laddove il pathos sfocia in emozioni quasi farsesche, nel finale; nell’altro, una burbera e rassicurante interpretazione.

Lo spettacolo è bello o brutto? Lo spettacolo è un chiaroscuro, come la vita di ogni essere umano, tra luci abbaglianti ed ombre opache compresse tra successi, rimpianti e rimorsi. 

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Applausi più sentiti per Sergio Rubini

“La Grande Bellezza” di Paolo Sorrentino. Roma ai tempi di Jep Gambardella

 

Jep Gambardella: “La più sorprendente scoperta che ho fatto subito dopo aver compiuto sessantacinque anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare!”

Il mio pensiero-recensione notturno…..

La Grande Bellezza, un film con una affascinante fotografia ed un protagonista indovinato nei panni di Jep Gambardella. La storia, ben raccontata e girata, lancia un messaggio a tratti cupo e farsesco, triste. Un film molto mentale ed onirico sotto diversi aspetti. Lo squallore delle nevrosi di ricchi e benestanti insoddisfatti, alla ricerca della felicità attraverso l’effimero di droghe, eccessi e botox. Schiacciati sotto il peso della salvaguardia di apparenze opprimenti. Il contraltare di una anzianità estrema di una suora, funzionale al rilancio del concetto dell’importanza delle radici, quasi un pretesto narrativo con nessuna intenzione di esaltare la religiosità, ottima copertura-paravento di prelati frivoli. Jep attraversa notti e giorni del suo regno di mondanità ed ogni minuto sembra portarlo verso la convinzione di aver sbagliato tutto, di aver imboccato la strada più abbagliante e logorante. C’è Roma, c’è la natura, ti ritorna in mente la canzone “Vacanze Romane”. Ci sono momenti poetici, citazioni di vecchie pellicole, impercettibili, a guidarlo in questo cammino. Un inferno dantesco, una dolce vita decenni dopo, dove la guida, il faro nella notte, notte dell’anima e notte reale, è un ricordo: la Grande Bellezza, quella vera, quella importante, quella non afferrata, non vista quando potevi toccarla e viverla al massimo. Quella nella quale si rifugia in ogni momento, senza ammetterlo con se stesso. Se non quando molto è già perso definitivamente. Uno strano film di parola, con dinamiche parecchio teatrali dove il racconto è lo specchio dei pensieri di Jep e del suo mondo, a volte disturbato, altre cinico, altre ancora sognante. Un film di speranza, disperazione o rassegnazione? Un film di speranza se si è in tempo. Di disperazione se ci si specchia in quanto Jep non vuole più. Di rassegnazione se ci si riconosce in questa fase esistenziale, lasciata alle spalle. Un film dopo il quale si riflette su tante cose importanti della vita. Un film spartiacque se visto con gli occhi di chi è pronto alla meditazione.

“No, i giorni dell’arcobaleno”, di Pablo Larrain, ottimista e creativo

La curiosità era incredibile dopo il monologo di Roberto Saviano e le mie aspettative non sono state tradite. Regia d’autore, realistica. Cast di livello. Sbalordisce trovare rivoluzionario un messaggio tanto semplice come il bisogno di allegria dopo anni di dittatura. Nella campagna vincente sul no al referendum contro Pinochet. Un docufilm formidabile intriso di storia cilena. Alla paura ed al dolore si reagisce con uno sprone alla felicità, alla fiducia in se stessi, all’ottimismo creativo! Senza negare il passato ma convogliando il suo ricordo verso il domani. Bellissimo film! Appagata! Ora approfondirò la storia vera.

“Re della Terra Selvaggia” e la saggia Hushpuppy

Una storia tra magia e realtà ambientata nella Louisiana degli uragani….

….vista dagli occhi e dalla fantasia di una bambina. Uno di quei film che non puoi dimenticare. Per la bravura del cast, per la bellezza della storia, per le immagini. Ti restano dentro grazie ad una sceneggiatura con dei testi di semplice saggezza. Ecco cosa dice la piccola Hushpuppy (Quvenzhané Wallis)
“So di essere un piccolo pezzo di un grande, grande universo, perfettamente incastrato nel resto…L’intero universo è fatto di tutti piccoli pezzi incastrati insieme. Se un pezzetto si rompe, anche il più piccolo, l’intero universo cade in pezzi…”. Tra le immagini più commuoventi, quella miscela alchemica di sogno onirico e realtà nella quale la piccola riesce ad immaginare le storie raccontate dal papà sulla sua mamma e la rivede, reale ma immaginaria, nella vita reale, e quando il papà rischia di morire, lei sogna di trovare la forza nell’abbraccio miracoloso di una mamma nuotata via, lontano per rotte misteriose.