Il mio incontro con “God”, insieme ad Andrea Occhinegro Foto Servizio di Luca Ingenito per Studio Renato Ingenito
Se volessimo trovargli un diminutivo, amichevole, forse “God” sarebbe il più giusto. Il suo esodo lo ha portato in Italia nel 2014 ed oggi è un richiedente asilo. La sua casa, fino a quando non sarà discusso lo status di rifugiato, sarà l’Abfo, Associazione benefica “Fulvio Occhinegro”. Diventato uno dei centri di solidarietà di riferimento dell’emergenza profughi e, recentemente, degli sbarchi di “Mare Nostrum” e delle donazioni dei benefattori. Si fida di Andrea Occhinegro, presidente dell’associazione, ed ha accettato di raccontare la sua storia. Un racconto di vita emblematico e comune a tanti migranti, profughi, in fuga dall’Africa subsahariana, in questo caso, e dalla Nigeria. I suoi occhi, quando accetta di iniziare a parlare, non ridono mai, nemmeno se la sua bocca accenna un sorriso. Sono tristi, colmi di ricordi malinconici, lutti non pienamente elaborati, ed esperienze drammatiche. Oggi, lui rappresenta il simbolo della tratta umana degli scafisti, di quegli esseri umani stipati nei barconi. Perfino nella traversata, infatti, esistono le differenze sociali. Se, benestanti, spesso siriani, pagano grosse cifre nei viaggi sui gommoni veloci, lasciando alle spalle una guerra civile e sognando di ricongiungersi a parenti e comunità nel Nord Europa, questi giovani del centro Africa lasciano le guerre tribali ed il conflitto religioso tra cristiani e musulmani e, loro malgrado, finiscono in losche tratte di nuovi schiavi e traffici di uomini. Vengono costretti a barattare il miraggio di un viaggio verso l’Europa con lavori forzati e, se non accettano queste forme di schiavitù, non bevono e non mangiano. Lasciano le terre calde a sud del deserto e finiscono intrappolati in Libia, a lungo, a volte fino a due anni, prima di riuscire a trovare il modo di guadagnarsi il loro posto su una di quelle imbarcazioni insicure e pericolosissime, in qualche caso tragicamente letali, se non si arriva disidratati dopo due, tre giorni di navigazione, sotto il sole, sperando di essere soccorsi e di non naufragare. «I worked in Libia for “the arab man”, two years». Ripete, ricordando i due anni di lavoro in cambio di un sogno, correndo il rischio di trasformarlo in una dolorosa e raggelante illusione. Nel suo villaggio nigeriano, God, in nome di un conflitto su un Dio, ha perso la pace, la mamma e la sorella. Gli torna in mente suo padre, quando lo incontrò in ospedale, prima di lasciare la Nigeria e decidere di tentare, solitario, di attraversare il deserto, a piedi, mettendoci due settimane almeno. “Sahba”, nome di una città libica e di un carcere disumano, dove poteva essere motivo di detenzione a quanto pare una semplice voglia di espatrio, ancor peggio se si era neri e cristiani, viene fuori nelle sue parole, al pari di quanto raccontano alle associazioni ed ong accreditate i migranti sopravvissuti ad un vero e proprio internamento simile ad un girone infernale. Qui, avrebbero sparato ed ucciso i suoi amici, davanti ai suoi occhi: «My friends, in Libia…killed to my presence, at Sahba with guns». E, così, God, e gli altri suoi “fratelli” africani, sono arrivati nel nostro Paese dopo aver beffato la morte nei genocidi, nel deserto, nei lager della tratta, nei viaggi su barconi. Ora, devono superare l’ultimo scoglio dello status di rifugiato e del permesso di soggiorno, dell’integrazione, della ricerca di un lavoro, di una nuova vita in Europa. E, fino ad oggi, lui e tanti altri nigeriani, eritrei, sudanesi, ghanesi, somali, la loro forza di volontà l’hanno dimostrata tutta. A settembre, la commissione territoriale di Bari discuterà la sua richiesta. Adesso, ha solo voglia di dire grazie a chi l’ha accolto, aiutandolo, dandogli vestiti, cibo e, soprattutto, amicizia. Paradossalmente, tra i migliaia arrivati con gli sbarchi di “Mare Nostrum”, saranno davvero in pochi a richiedere asilo in Italia. La maggior parte, o temporeggia o già sta tentando di oltrepassare il confine. Come è ormai “prassi” non scritta, nota a chiunque stia osservando davvero questo fenomeno.
(Articolo pubblicato nell’edizione di Taranto di “Nuovo Quotidiano di Puglia” del 2 Luglio 2014)
“….ebony, ivory living in perfect harmony” Foto Servizio di Luca Ingenito per Studio Renato Ingenito
L’appello di Amnesty International sugli abusi in Libia: “Libia: stop agli abusi contro i migranti, rifugiati e richiedenti asilo!”
Il testo dell’appello:
Decine di migliaia di migranti e rifugiati che entrano in Libia dall’Africa Subsahariana, dall’Africa del Nord e dal Medio Oriente rischiano sfruttamento, detenzione arbitraria e detenzione a tempo imprecisato e in dure condizioni, così come abusi durante l’arresto e la detenzione. Dopo essere stati arrestati da membri di agenzie di sicurezza statali, di milizie e, talvolta, da cittadini “preoccupati”, vengono spesso trattenuti in “centri di detenzione” sovraffollati e scarsamente finanziati, gestiti dal ministero degli Interni o dalle milizie. Minori richiedenti asilo non accompagnati possono essere detenuti in tali condizioni per mesi senza poter incontrare le famiglie. Amnesty International ha documentato numerosi casi di percosse, frustate e altre forme di tortura o maltrattamenti in queste strutture, anche nei confronti delle donne. In assenza di personale femminile, le detenute migranti e rifugiate sono esposte ad abusi sessuali, comprese perquisizioni intrusive sul corpo da parte di guardie maschili.
Secondo la legge libica, i cittadini stranieri che entrano in Libia irregolarmente possono essere detenuti a tempo indeterminato in attesa dell’espulsione. La maggior parte di loro non è mai stata portata davanti all’autorità giudiziaria per poter contestare la detenzione o denunciare il trattamento subito. La loro espulsione può essere ritardata per mesi per motivi finanziari e amministrativi e a causa dello scarso coordinamento tra le ambasciate dei paesi detenuti. Le autorità libiche hanno anche iniziato a sottoporre i cittadini stranieri a esami medici forzati e a espellere quelli con diagnosi di infezioni virali come l’epatite B e C o Hiv. I funzionari libici o i miliziani non fanno alcuna distinzione tra migranti irregolari, richiedenti asilo e rifugiati.
Persone che necessitano di protezione internazionale si trovano a dover affrontare il rischio di detenzione arbitraria e indefinita, tortura e altri maltrattamenti. Sebbene l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) visiti le strutture di detenzione, non esiste un sistema nazionale per valutare le esigenze di protezione dei richiedenti asilo e rifugiati e per proteggerli dall’espulsione.
Nonostante la situazione dei migranti e dei richiedenti asilo in Libia, l’Ue e i suoi stati membri hanno continuato a portare avanti forme di cooperazione con la Libia per il controllo dell’immigrazione. Più di recente, l’Ue ha istituito una missione di assistenza alle frontiere (Eubam) volta a rafforzare la capacità delle autorità libiche allo scopo di migliorare i controlli alle frontiere, anche per quanto riguarda la gestione dei flussi migratori.
La presidenza italiana dell’Unione Europea dovrebbe:
- evitare di stipulare accordi futuri sul controllo dell’immigrazione con la Libia fino a quando le autorità locali non avranno dimostrato di rispettare e proteggere a pieno i diritti umani dei rifugiati, richiedenti asilo e migranti, e di mettere in atto un valido sistema di valutazione e riconoscimento delle domande di protezione internazionale;
- garantire che l’Ue monitori e valuti regolarmente l’impatto sui diritti umani della cooperazione con la Libia in tema di flussi migratori.
Il blog di Save the Children: L’arrivo in Italia via mare: l’immigrazione dalla Libia
Il testo del post:
La Libia è un paese di transito o destinazione per molti migranti provenienti da diverse aree geografiche. L’instabilità del paese rende l’immigrazione dalla Libia verso l’Europa molto frequente. Gli immigrati Eritrei che arrivano in Italia via mare partono infatti dal paese nordafricano, dove spesso passano mesi rinchiusi in centri di detenzione subendo violenze, maltrattamenti e, in alcuni casi, come da loro raccontato, torture.
Arrivano in Libia dopo aver attraversato il Sudan, da soli o ceduti dai trafficanti sudanesi a quelli libici. Trascorrono mesi in centri di detenzione e, secondo quello che ci hanno raccontato, sono liberati solo a fronte di pagamento o lavorando in condizioni di sfruttamento. Quando riescono a fuggire da queste situazioni resta da affrontare il mare per arrivare in Europa, rischiando, ancora una volta la propria vita. In altri casi vengono detenuti dai trafficanti in luoghi isolati, stipati per mesi, prima di intraprendere un viaggio verso l’Italia organizzato dai trafficanti stessi con imbarcazioni fatiscenti.
Questo avviene perché la legge libica prevede che i cittadini stranieri entrati nel paese irregolarmente possono essere detenuti a tempo indeterminato in attesa dell’espulsione. Anche le persone che necessitano di protezione internazionale devono affrontare il rischio di detenzione arbitraria e indefinita, tortura e altri maltrattamenti.
La Libia non ha ratificato infatti il principale strumento di protezione dei rifugiati, la Convenzione di Ginevra del 1951 e il suo Protocollo (1969). Nonostante ciò e il fatto che il rischio di detenzione in Libia sia molto alto, soprattutto per gli immigrati dall’Africa Subsahariana, sono molti i rifugiati e i richiedenti asilo che arrivano nel paese.
In attesa della creazione di un sistema nazionale per i richiedenti asilo e la firma di un accordo di intesa fra il governo libico e l’Unhcr, per far fronte a questa drammatica realtà, stanno progressivamente riprendendo le registrazioni dei richiedenti asilo e l’Unhcr monitora la situazione nei luoghi di detenzione.
Purtroppo però, alla fine del 2013, sono stati migliaia gli immigrati arrestati a tempo indefinito e rinchiusi in centri di detenzione in condizioni di sovraffollamento e di carenze igieniche. Non avevano alcun mezzo per contestare la legittimità della loro detenzione o il loro trattamento, hanno subito abusi verbali, pestaggi e altri maltrattamenti e, in alcuni casi, sono stati anche torturati. Almeno due cittadini stranieri sono morti in custodia nelle mani delle milizie libiche.
Bereket, ed altri ragazzi eritrei, arrivati in Italia, si lasciano dunque alle spalle esperienze drammatiche e hanno assoluto bisogno di assistenza e protezione.