Il “Chilometro Verde” mi strappa le lacrime nel film “Scusate se esisto”

 

Terzo film della stagione, terza lacrima, o forse qualcuna in più. Ma, dico io, è mai possibile?? Non so se è perché seguo i consigli giusti o se riverso nel cinema una marea di emozioni nascoste. Vado a vedere “Scusate se esisto” al Cinema Teatro Orfeo di Taranto, raccogliendo l’appello dell’ultimo giorno di programmazione. Ci vado alla cieca, a scatola chiusa, senza sapere nulla, e dico nulla, se non voci su “al cinema c’è Raoul Bova”. Ci vado e vengo illuminata: Non è un film con Raoul Bova. Sono matta direte? No…! Non è quello il motivo, la ragione, il senso, il perché del film! Certo, Raoul Bova è nel cast ma ritenerlo un film incentrato su di lui sarebbe un errore. Si tratta di una commedia appassionante, con tutti gli ingredienti, il sorriso e la malinconia, dove abilmente rimescolando atmosfere della commedia degli equivoci ed un pò di icone, come il Diavolo Veste Prada o L’Attimo Fuggente, si lanciano messaggi importanti sull’architettura sociale, sul vero progetto del Chilometro Verde, sul rispetto delle persone, facendo leva su tutti gli stereotipi della discriminazione ed emarginazione sociale. Paola Cortellesi, strepitosa, si ispira a Guendalina Salimei. Finito il film, esci con una bella commozione, ti viene voglia di approfondire, se sei fatta come me, e scoprire qualcosa sul vero progetto, apprendendo perfino dell’uso del Tax Credit Esterno nella produzione del film, strumento di agevolazione fiscale con il quale le imprese possono sponsorizzare un film e guadagnarci. Come qualcuno vorrebbe fare a Taranto. Non vi ho convinto? Andateci e poi potrete valutare e capire cosa vi ha lasciato questa storia, se superficialità o un grande groppo in gola sul significato dell’essere persone, umane, amiche, complici, sincere, rispettose nella vita di tutti i giorni.

 

La voglia di libertà si infrange nei CIE: “Eu 013 L’Ultima Frontiera”

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Il mondo con gli occhi di chi finisce in un Cie, Centro di identificazione ed espulsione, è uno strano mondo, insensato, incastrato in un meccanismo contorto, fine a se stesso, forse funzionale a qualche entità del Terzo Settore, mai alla risoluzione dei problemi. Un limbo compresso tra l’inferno alle spalle ed il paradiso sognato. Può durare mesi, anni. E la permanenza dipende spesso dagli accordi bilaterali, sui rimpatri forzati dei migranti irregolari e clandestini, tra Italia ed alcuni paesi nord africani, essenzialmente dell’area del Maghreb, come Tunisia, Algeria, Marocco. “Eu 013: L’Ultima Frontiera”, il film documentario di Raffaella Cosentino ed Alessio Genovese, regista, presentato il 5 marzo 2014 nella sala della Protoemoteca del Campidoglio di Roma, racconta questa prospettiva, questo punto di vista, di chi spesso rischia di impazzire in giornate tutte uguali a se stesse, dalle sbarre dei Cie di Bari, Trapani, Roma. Arrivano in Italia clandestinamente, senza visto, perché i loro Paesi non favoriscono l’emigrazione. Oppure diventano irregolari in Italia, quando perdono il diritto al permesso di soggiorno. E, tra le storie raccontate nel film documentario, non lascia indifferenti il caso di un giovane vissuto tutta la vita in Italia, senza cittadinanza: espulso in Tunisia, adulto, al primo problema con la giustizia, accusato di aver commesso un reato minore; tornato in Italia clandestinamente e poi finito al Cie di Bari, parlando un perfetto italiano e con tutta la famiglia e gli amici in Italia. Un paradigma di storie molto simili di chi nei Cie riesce ad arrivare da clandestino o irregolare, spesso dopo un periodo di detenzione in carcere. Vorrebbero fare qualsiasi lavoro, tuttavia non riescono a trovarlo con i permessi temporanei, e restano intrappolati in un status di clandestinità imposta e permanente.

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Sequenza durante la proiezione in Campidoglio.Tipico Cie, con sbarre gialle.

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5 Marzo 2014, Campidoglio, Roma, Raffaella Cosentino, Alessio Genovese, la moderatrice Luciana Cimino, Erica Battaglia, Gianluca Peciola, Stefano Galieni

Raffaella ed Alessio hanno raccontato le storie di chi cerca di arrivare a Fiumicino o al Porto di Ancona, non solo di chi arriva con i barconi degli scafisti, imbarcandosi in Libia alla volta di Lampedusa. E, soprattutto, hanno voluto accendere una luce su chi permane e vegeta nei Cie, dove è sempre stato molto difficile entrare e capire in quali condizioni vivessero i migranti, non tanto sulle procedure e sulla burocrazia di ogni singolo caso, ogni singola storia umana. Il principio di fondo è la presa di posizione contro l’esistenza stessa dei Cie, capaci di spegnere i sogni di libertà di migliaia di migranti, spesso colpevoli solo di aver voluto cercare fortuna in Italia. In tanti possono arrivare a restare nelle maglie dei Cie a lungo, 18 mesi e forse più. L’Italia non li fa uscire. Il loro Paese non li riaccoglie e così la detenzione amministrativa assomiglia ad un ergastolo senza processo. Chiaramente, scavando nella storia di ognuno, verrebbero fuori tante differenze. Eppure, è chi non merita questo trattamento a soffrire di più ed ingiustamente ed il sistema non sembra in grado di fare le opportune diversificazioni, bloccato in una sabbia mobile di routine. Alla proiezione del Campidoglio, c’era Stefano Galieni, della campagna “LasciateCIEntrare”, riuscito ad entrare nei Cie, in diversi modi, accompagnando parlamentari o associazioni di volontariato: «Il Cie doveva essere l’estrema ratio, non un luogo di detenzione di 18 mesi. A Ponte Galeria, a Roma, ci sono stato almeno 25 volte. Questo posto non è migliorabile. Ci guardano con diffidenza perchè non cambia niente. Si è creato un muro tra mondi diversi. Dovremmo poterci entrare sempre senza dover aspettare l’autorizzazione di una Prefettura». Raffaella Cosentino ha tentato un collegamento con Lassaad, ancora nel girone dei Cie, senza fortuna (il 19 marzo 2014, su fb, l’autrice ha annunciato il suo ritorno alla libertà, ndc), volendo lanciare un messaggio simbolico importante dalla sala del Comune di Roma. Alessio Genovese definisce i Cie incomprensibili per la mente umana ed individua già nella legge Turco/Napolitano il principio di discutibili politiche migratorie confluite nella Bossi/Fini. Il regista propone una strategia culturale alternativa ad un certo protezionismo culturale dell’Europa. 

Nella mia esperienza di giornalista, mi è capitato di raccontare il fenomeno della migrazione, sotto il profilo delle attività della Marina Militare. Ad esempio quando nel 2011 tanti tunisini arrivarono a Manduria, dopo la tappa alla Base Navale Mar Grande di Taranto, raccontando di essere stati costretti ai viaggi clandestini perché il visto veniva negato. In quel caso, in realtà, volevano andare oltre confine e si assisteva al paradosso di fughe quasi tollerate affinché questi migranti potessero poi arrivare in Belgio o Francia o Svizzera, perché non avevano alcuna intenzione di chiedere la protezione internazionale in Italia, e non erano nemmeno profughi di zone di guerra come la Libia in quel momento critico. O, recentemente, mi sono occupata del ritorno di Nave San Marco da “Mare Nostrum”: missione umanitaria di soccorso a migranti, spesso siriani o subsahariani, dei viaggi della speranza nei barconi degli scafisti; e militare mirante all’individuazione ed arresto degli scafisti delle organizzazioni criminali. 

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Nuovo Quotidiano di Puglia, 26 Febbraio 2014

Ho potuto notare forti perplessità, specie dei politici del Comune di Roma (in particolare Gianluca Peciola di Sel, presente insieme ad Erica Battaglia, presidente Commissione Politiche Sociali e Francesco D’Ausilio, capogruppo Pd,), e del regista stesso del film documentario, sull’utilità di Mare Nostrum. Dal canto mio, ascoltando le testimonianze del team del San Marco, in sinergia con la fondazione Francesca Rava, Croce Rossa, Protezione Civile, mi chiedo cosa si possa trovare di discutibile nelle operazioni di soccorso quasi settimanali ai migranti di barconi e gommoni, questi ultimi senza giubbotti di salvataggio, specialmente dopo la strage in mare del 2013.

Mare Nostrum, Soccorsi di Nave San Marco. Fonte: Marina Militare

Mare Nostrum, Soccorsi di Nave San Marco. Fonte: Marina Militare

Mare Nostrum, San Marco

Mare Nostrum, Soccorsi di Nave San Marco. Fonte: Marina Militare

Quindi, è forse il sistema, appunto, il problema, il nocciolo della questione, ovvero un ingranaggio voluto da alcuni governi e tollerato da altri, dove se alla Marina non fosse stato chiesto di avviare il pattugliamento insieme a Guardia di Finanza e Guardia Costiera, con il supporto di un pattugliatore della Slovenia e basta, a proposito di Europa, sarebbe Lampedusa a dover affrontare questi esodi continui e sappiamo tutti cosa accadde quasi tre anni fa. L’Italia è un Paese capace solo di unirsi nell’emergenza, e non di coalizzarsi nella cooperazione e pianificazione. E come si ipotizzava all’incontro al Campidoglio, se si rilasciasse il visto a questi migranti con accordi speciali non sarebbero costretti alla vita di migranti clandestini ed irregolari. Perché si può impedire ad un essere umano di sognare una vita migliore ed emigrare? No, non si può, tenterà sempre di provarci…come tanti italiani hanno fatto nei secoli passati. 

 

E forse il Castel del Monte di Federico II era un Hammam nelle colline di Puglia, luogo di cura del corpo e dello spirito

Disegno di Ubaldo Occhinegro.

Disegno di Ubaldo Occhinegro. Castel Del Monte, luogo di cura del corpo e dello spirito….

Bisogna arrivare alla 501ª pubblicazione dedicata a Castel del Monte e, forse, l’enigma si svela… Anni di studi, ricerche, libri tutti miranti ad approfondire alcuni aspetti ed a confrontarsi sulle sfumature di una stessa impostazione. E, poi, ad un certo punto, arriva un uragano nella comunità scientifica accademica. I due architetti, Ubaldo Occhinegro e Giuseppe Fallacara, entrambi pugliesi, uno di Taranto, l’altro di Bitonto, hanno un’illuminazione: “Castel del Monte, non era un Castello, ma un luogo di cura del corpo e dello spirito di Federico II”, una specie di evoluzione degli Hammam islamici con diversi simbolismi spirituali, ritrovati perfino in una moschea di Gerusalemme. Una ipotesi divulgata parzialmente nel 2010 e poi rivista ed integrata nel volume pubblicato l’anno successivo: “Castel del Monte, nuova ipotesi comparata sull’identità del monumento (PoliBaPress, aprile 2011)”.

Il volume è uno scorrere di foto del monumento attuale, disegni, ricostruzioni al computer, luoghi sparsi in giro, nel mondo, tra il Mediterraneo ed il Medioriente. Dove realmente i due autori sono stati ed hanno fatto rilievi e sopralluoghi, con notevoli difficoltà, spesso improvvisandosi detective della storia dell’architettura, temendo limitazioni alle loro osservazioni scientifiche.

Ho fatto quattro chiacchiere con loro, un po’ moderatrice anti convenzionale, un po’ intervistatrice, alla presentazione della loro ricerca, al Museo Diocesano dell’Arte Sacra, nella città vecchia di Taranto, il 24 giugno 2013. L’evento era inserito nella “Festa dell’Architetto”, prima edizione, dislocata in due location, il village di via Mignogna, nel nuovo Borgo, ed il Mudi. Sempre alla Facoltà di Architettura / Politecnico di Bari: Ubaldo Occhinegro è Dottore di Ricerca in Progettazione Architettonica e Docente incaricato di Disegno dell’Architettura; Giuseppe Fallacara è Ricercatore e Docente di Progettazione Architettonica e Storia della Stereotomia.

Si, certo, sono architetti, ma raccontano di aver privilegiato un approccio multi disciplinare, insieme in particolare ad una storica di arte ed architettura. E quei 500 libri li hanno letti uno alla volta, non trovando tracce della loro teoria. Mostrando un filmato di una emittente pugliese, con una loro ricostruzione tridimensionale, ed un reportage trasmesso nel 2012 nel programma “Atlantide” di La7 (del quale, nel web al momento si sono perse le tracce), hanno introdotto la loro “illuminazione”, incuriosendo qualche spettatore all’oscuro dell’esistenza stessa della ricerca.

Questo monumento, secondo aggiornati sondaggi, sarebbe ancora il più visitato in Puglia. A ruota, il Castello Aragonese di Taranto, con diverse stratificazioni, fra le quali lo zampino dell’età federiciana, cerca di contendergli il podio nella classifica dei flussi turistici.

Tuttavia, il Non Castel del Monte (si gioca…nei blog si può fare, un po’ come nel Paese delle Meraviglie di Alice), è sempre stato avvolto nel mistero, tra suggestioni esoteriche ed enigmi storici, ed in ogni caso i restauri – hanno raccontato Ubaldo e Giuseppe – sono stati invasivi e lo avrebbero snaturato. Fino al punto di chiedersi se continuare su quella probabile falsa riga dei restauri, in una sorta di deriva castrense, rispetti davvero la storia del luogo e l’avanzamento delle ricerche.

(3 milioni stanziati: http://www.coesioneterritoriale.gov.it/wp-content/uploads/2013/02/Fondi-FESR-Poin-attrattori-culturali-2007-2013.pdf)

Affascina…immaginare questo personaggio eccentrico e visionario, isolarsi in una collina, assicurandosi di avere la protezione dei castelli costieri, inseguendo l’immortalità e la lussuria, nei percorsi acquatici, forse in compagnia di procaci donne dei suoi Harem. Dopo aver letto il libro degli autori, ed aver guardato le foto, con la loro guida narrativa, non c’è scampo: inizi ad immaginarti una Spa d’altri tempi, con i percorsi benessere, acqua ovunque, innovativi impianti di raccolta e canalizzazione delle acque, capaci di rendere il luogo auto sufficiente, o eco-sostenibile, come diremmo oggi. Loro, riescono a convincerti. E dimostrano tutta l’adrenalina venuta fuori, scoperta dopo scoperta. Non è stato facile arrivare alla pubblicazione, ancora fuori dai cataloghi del book shop del Castel del Monte. Ed i ricercatori avrebbero ostacolato la loro ipotesi di lavoro, mostrando poca apertura ai passi avanti, fatti utilizzando nuove prospettive di lavoro, valutazione, elaborazione degli indizi, fino ad oggi non notati. Sempre la storia dell’allievo che supera il maestro, dura da digerire…?

Riusciranno questi architetti a portare la ricerca al cospetto di altri studiosi? Arricchendo il confronto? Arrivando fino ai banchi di scuola?

Saprà il nostro Paese cogliere questo lampo di genio come già all’estero starebbe accadendo? La Puglia saprà superare la trappola della tradizione storica ai confini della leggenda?

Il loro sogno nel cassetto è partecipare ad un duello, simbolico, tra conservatori della vecchia idea ed illuminati dalla loro intuizione. Ce la faranno?

Sapete cosa vi dico? Abbiamo trovato altri due “Sblocchers”!

Così, l’anno scorso, la loro facoltà, comunicò il proprio orgoglio:

Svelato l’enigma secondo una ricerca pubblicata da due ricercatori del Politecnico di Bari “Castel del Monte: residenza imperiale per la cura del corpo e dello spirito” 

Bari, 1° ottobre 2012 – Simbolo della Puglia dal XIII° secolo, Castel del Monte ha da sempre polarizzato le attenzioni degli studiosi di tutto il mondo. Esso è, come dice l’UNESCO, un capolavoro unico dell’architettura medievale, che riflette l’umanesimo del suo fondatore: Federico II di Svevia. La sua forma fortemente geometrica e unica rispetto ad altri edifici medioevali, l’articolazione su due livelli, la collocazione geografica, ha prodotto almeno 500 ricerche in tutto il mondo, nessuna delle quali però è riuscita a svelare e a convincere fino in fondo i perché di quel castello così “diverso”. La scarna documentazione storica a disposizione ha dettato ipotesi e non certezze. Due ricercatori della Facoltà di Architettura del Politecnico di Bari, Giuseppe Fallacara e Ubaldo Occhinegro, aprono finalmente uno squarcio di verità e sostengono una tesi davvero credibile. Una congiunta ricerca, recentemente pubblicata, spiega le ragioni di quel progetto voluto fortemente e fatto realizzare dall’imperatore. I loro studi si sviluppano all’interno del Dottorato di ricerca in “progettazione architettonica per i Paesi del mediterraneo” della Facoltà di Architettura a partire dal 2009. E, dopo tre anni, nello scorso giugno 2012, approdano ad una conclusione. Attraverso la lettura, le misure e le osservazioni di quel libro di pietra, così come si presenta oggi, ricostruiscono a ritroso, superando i mascheramenti dei diversi interventi di restauro (1879, 1928, 1975-81) e approdano al progetto iniziale, per stabilirne il fine. “Castel del Monte – dicono – fu edificato nell’ambito del potenziamento di tutte le strutture fortificate dell’Italia meridionale. Accanto a queste, Federico II, pensò alla costruzione di un tempio, il più magnifico di tutti gli edifici da lui visti ed ammirati, da Palermo a Roma, da Beirut a Gerusalemme. Un tempio per lo spirito, per la cura del corpo e per il culto della bellezza, alla ricerca dell’immortalità che gli spettava di diritto, quale imperatore di tutti gli uomini, eletto direttamente da Dio. E lo fa realizzare, secondo tecniche orientali, legate agli Hammam arabi, veri centri di cura del corpo, di origine romana, che si avvalgono dell’uso di vapore, acqua corrente e variazioni di temperatura degli ambienti.” Fallacara e Occhinegro realizzano una ricostruzione del castello attraverso le immagini, così come doveva apparire al visitatore del 1240. Segnano il percorso funzionale dall’ingresso, spiegano le ragioni degli spazi su entrambi i due livelli, apparentemente uguali. Il maniero, nell’insieme, appare concepito e realizzato come una macchina di ingegneria idraulica, in grado di soddisfare le necessità, forte di 5 cisterne pensili, di cui 2 a piano terra, 5 grandi camini e le relative superfici interne ed esterne, progettate per raccogliere e veicolare le acque meteoriche. Numerosi i dettagli, i singoli elementi che, come tessere di un puzzle, trovano la giusta collocazione, e, come d’incanto, aprono, una ad una, le porte di una tesi finora inedita e credibile”.

Da sinistra, a parte me, Ubaldo Occhinegro e Giuseppe Fallacara. Foto di Massimo Prontera.

Da sinistra, a parte me, Ubaldo Occhinegro e Giuseppe Fallacara. Foto di Massimo Prontera.

Foto di Massimo Prontera. Sala Congressi del Mudi. Festa dell'Archietto.

Foto di Massimo Prontera. Sala Congressi del Mudi. Festa dell’Archietto.

Un avvocato contro tutti. Un sit-in di tarantini davanti Montecitorio, il 9 aprile. Si difende la Costituzione Italiana

Tante perplessità investono i tarantini in queste ore, tra sentimenti contrastanti, da quando la Consulta della Corte Costituzionale ha respinto il ricorso dei giudici di Taranto contro la legge “Salva Ilva”. Attendendo le motivazioni ufficiali, quando è stato diramato questo comunicato stampa, lo scoramento aveva preso il sopravvento: “La Corte costituzionale, all’esito dell’udienza pubblica e della camera di consiglio in data odierna, relativamente ai procedimenti r.o. n. 19 e n. 20 del 2013, promossi dal Giudice per le indagini preliminari e dal Tribunale di Taranto, ha ritenuto in parte inammissibili e in parte non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 3 del decreto-legge n. 207 del 2012, conv. dalla legge n. 231 del 2012. La decisione è stata deliberata, tra l’altro, in base alla considerazione che le norme censurate non violano i parametri costituzionali evocati in quanto non influiscono sull’accertamento delle eventuali responsabilità derivanti dall’inosservanza delle prescrizioni di tutela ambientale, e in particolare dell’autorizzazione integrata ambientale riesaminata, nei confronti della quale, in quanto atto amministrativo, sono possibili gli ordinari rimedi giurisdizionali previsti dall’ordinamento. La Corte ha, altresì, ritenuto che le norme censurate non hanno alcuna incidenza sull’accertamento delle responsabilità nell’ambito del procedimento penale in corso davanti all’autorità giudiziaria di Taranto”.

Quella giornata, quel 9 aprile 2013, l’ho vissuta tra l’udienza pubblica nel Palazzo della Consulta ed il sit-in dei cittadini di Taranto davanti a Montecitorio.

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Palazzo della Consulta della Corte Costituzionale, 9 Aprile 2013, Roma

E vorrei provare a raccontarvela interrogandomi come avrebbe fatto un cittadino qualsiasi.

Il giudice relatore, Silvestri, ha esordito leggendo l’ordinanza di rimessione alla Corte, arrivata da Taranto, da Gip e Procura.

I giudici di Taranto avevano elencato la lista di limiti della legge “Salva Ilva”: la possibilità di continuare a proseguire l’attività illecita per 36 mesi; la discriminazione dei cittadini impossibilitati a fare ricorso in tutela dei propri diritti contro l’Aia rilasciata il 26 ottobre 2012, con apparente forza di legge dello Stato; il notevole sforzo legislativo mirante a favorire l’Ilva a discapito di altre aziende; la violazione di tanti articoli della Costituzione (2, 3, 9, 24, 25, 27, 32, 41, 101, 102, 103, 104, 107, 111, 112, 113, 117; in più in relazione all’articolo 6 della Convenzione per la Salvaguardia dei diritti dell’uomo e libertà fondamentali, articoli 3 e 35 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea ed articolo 191 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea).

In ballo c’era tanto: il rischio di svuotare di senso la responsabilità penale del sistema dei Riva, l’inibizione ad agire in giudizio, il valore di un ambiente salubre meno importante dell’economia, il principio di precauzione a livello europeo.

Un bel fardello insomma.

Mi sarei aspettata di vedere una folla di persone ad assistere, ed invece c’erano solo, praticamente, gli studenti universitari e qualche giornalista o documentarista.

E mi sarei aspettata di vedere tanti avvocati a sostenere l’incostituzionalità della legge.

Purtroppo, ho appreso, sul posto, come il rispetto delle procedure avesse determinato, al contrario, una disparità di forze.

Un 5+1 contro 1. Mi spiego meglio: dalla parte della legge “Salva Ilva”, ho ascoltato due lunghe arringhe di legali dell’Ilva, più una breve postilla di un terzo legale ed un’altra arringa di Federacciai e Confindustria, in questo ultimo caso non ammessi alla discussione. E la stessa Avvocatura dello Stato era nella sostanza pro Ilva; a difendere la posizione dei giudici di Taranto, è stato ammesso solo l’avvocato degli allevatori, Fornaro, ai quali la diossina ha strappato via gli agnelli, sacrificati come capri espiatori (non ammesso il WWF).

Pensate un po’ come sarebbero cambiate le cose se ci fosse stata la città di Taranto rappresentata, se ci fosse stato il Comune come parte civile fin dagli inizi dell’iter del giudizio principale.

Solo i Fornaro, avevano un interesse qualificato per mandare in Consulta un avvocato.

Solo i Fornaro potevano difendere Taranto.

Una arringa contro tutti, se sommiamo tutte le posizioni di fatto ascoltate (in quanto il WWF non ha argomentato in udienza).

Prima di poter sentire l’arringa dell’avvocato Sergio Torsella, a difesa della Costituzione, dei giudici di Taranto, e della posizione di tutti i cittadini in piazza il 7 aprile a Taranto ed a Roma il 9 aprile, ho dovuto ascoltare una lista di motivazioni filo-acciaio. Federacciai/Confindustria, prima di essere esclusa ha fatto in tempo a raccontare del 25% di entrate garantite dall’Ilva e dalle sue 8 milioni di tonnellate di prodotto, e di come avessero partecipato al processo di formazione della legge Salva Ilva.

Ad uno ad uno, i legali dell’Ilva hanno elencato i loro cavilli. E, ascoltati dall’esterno, impressionavano certi loro argomenti: non c’è un assetto gerarchico nella Costituzione ma un equilibrio di principi, in una dimensione pluralista, ragionevolmente bilanciata, attraverso la coessenzialità; il giudice rimettente non può decidere di considerare prioritaria la “salute” e di non considerare l’Aia;

non c’è compressione del sistema penale durante le indagini preliminari, non c’è contrazione; i giudici di Taranto criticano l’Aia e la legge dello Stato e si impuntano sulle prescrizioni del sequestro assumendosi l’onere di dettare le norme di esercizio dell’attività industriale, negando il valore dell’Aia, attribuendosi un compito non previsto nella Carta Costituzionale, rivendicando un potere inesistente.

Ora, leggete, l’avvocato De Luca, dell’Ilva, ha detto in sintesi questo: “Il diritto alla salute sarebbe un diritto assoluto? Nel mondo moderno, ci sono attività con rischi. Sicuramente, la circolazione stradale di Taranto provoca centinaia di morti. Allora vietiamo la circolazione? I cellulari? Le sigarette? Gli alcolici? Tutte le attività civili? I giudici di Taranto sollevano un principio vetusto, arcaico e l’Ilva non ha mai violato leggi sulle emissioni”. Si….lo ha detto….ed io c’ero. E, quindi, tarantini se vedete slopping, emissioni fuggitive, se le centraline sono ad oltre 15000 metri, e non controllano la notte e costantemente, forse avete avuto le allucinazioni. Forse le abbiamo avute tutti…

Gli avvocati dello Stato, nella sostanza difendevano una legge scritta insieme agli industriali… In sintesi, hanno sostenuto questo: “I magistrati penali di Taranto hanno rivisto le proprie posizioni, hanno sequestrato i prodotti e poi li hanno dissequestrati e messi in vendita, quindi non erano illeciti, come le monete false e le droghe; il legislatore ha dettato regole frutto di valutazioni politiche, e comparazione di interessi; il giudice può solo applicare la legge rigidamente e sequestrare, e solo il Parlamento può dettare le regole in modo elastico. Il giudice di Taranto non può pretendere l’esclusiva della tutela degli interessi assistiti. La tutela preventiva spetta ugualmente al Parlamento ed all’autorità amministrativa. I giudici di Taranto non possono rivendicare questo monopolio”. Ed ancora: “Il Bilanciamento effettuato dal legislatore, nella legge provvedimento-tipo-occorrenza, è adeguato. Il diritto alla salute non può essere mai espresso in termini così assoluti o gerarchici, il provvedimento è un mosaico logico e coerente. La Comunità Europea non ha mai messo l’ambiente al centro, perché lambiva gli interessi del carbone e dell’energia; il principio di precauzione va visto in chiave pragmatica e l’ambiente va collegato nell’ambito del profilo economico produttivo”.

Ecco…a questo punto, finalmente, arriva il momento dell’avvocato Sergio Torsella: “E stata violata la separazione dei poteri, la legge confligge con un provvedimento correttamente emanato. La legge (la Salva Ilva) ha lo scopo di intervenire in modo cogente, il precipuo scopo di intervenire in un procedimento in corso, sopprime la funzione di controllo. Il Ministero avoca le funzioni di controllo su di se. La figura del garante propone misure all’Esecutivo. L’Esecutivo assorbe su di se gli altri poteri. Ma come? Addirittura, nella legge, provvedimenti monocratici del ministro per l’ambiente consentono l’attività produttiva durante i 36 mesi della fase di sequestro. Però, c’è attività criminosa in atto! C’è una irragionevolezza forte nella legge. Non sanziona il disastro. Colpisce le cose lievi e lascia indenni le condotte più gravi in pendenza di Aia. I diritti possono essere bilanciati, ma, in sede di Aia, il gruppo di lavoro ha escluso di doversi occupare del diritto alla salute, allora come fa ad esserci comparazione corretta di interessi? Trenta persone all’anno muoiono di inquinamento perché le regole non vengono rispettate. Non si possono subordinare gli interessi della produzione a due morti al mese. E la Comunità Europea sta già svolgendo delle indagini (entro il 1° aprile l’Italia avrebbe dovuto spiegare il mancato rispetto delle prescrizioni dell’Aia dell’Ilva)”. Ci può essere corretta tutela, concludeva nella sua arringa l’avvocato Torsella, solò se l’Aia non ha forza di legge e si può fare ricorso.

Nel frattempo, i tarantini, tenacemente manifestavano, cantando “Taranto Libera”, strappando ai grillini la promessa di vagliare un dossier e sottoporlo alle commissioni. Perché, il Parlamento le leggi le può abrogare e cambiare, non dimentichiamolo.

A turno, parlavano al megafono ed al microfono (nella didascalia di una delle foto, le parole di Angelo Bonelli) 

 

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Aumenta la folla al sit-in di Montecitorio

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Si attendono parlamentari al sit-in di Montecitorio

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Un appello a Papa Francesco

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Giornalisti delle agenzie stampa cercano di capire

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La maglietta “Taranto Ribellati” ed Angelo Bonelli al Megafono: “Se la Corte Costituzionale si prende la responsabilità di respingere l’istanza dei giudici di Taranto di dichiarare incostituzionale quella legge, si assume la responsabilità di dichiarare Taranto come “zona franca” a beneficio degli inquinatori. In quel caso, la Costituzione non esisterebbe più a Taranto. La Famiglia Riva è stata condannata due volte con sentenze passate in giudicato. Il ministro dell’Ambiente, Corrado Clini parla lo stesso linguaggio degli inquinatori”.

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Aggiornamento della situazione, dopo sit-in ed udienza in Corte Costituzionale

Bene, alla fine di questo racconto, spero di poter leggere delle motivazioni interpretative e capaci magari di leggere in una chiave diversa questa legge Salva Ilva ritenuta costituzionale.

E spero di poter rivedere il diritto alla salute dei tarantini, e dei suoi bambini, al centro di tutto, sgombrando il campo da discorsi astratti.

La vita vera non è una lezione universitaria di economia industriale.

A quegli studenti presenti il 9 aprile alla Consulta, suggerirei di visitare il rione Tamburi…

 

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Si trova ai Tamburi di Taranto, tra le case parcheggio.

#ta7aprile e #Roma9aprile, contro i decreti legge Salva #Ilva. Verso l’udienza pubblica della Corte Costituzionale

Arrivo subito al punto: il 7 aprile 2013 a Taranto ci sarà una grande manifestazione contro la legge “Salva Ilva”, aspettando le decisioni della Corte Costituzionale, il 9 aprile, in un’udienza pubblica, a Roma, sulla possibile incostituzionalità.

http://taranto7aprile.wordpress.com

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http://www.cortecostituzionale.it/documenti/lavori/doc/CC_CL_UP_20130329095719.pdf

Ma…ci sono delle cose che vorrei dire, pensieri che mi frullano per la testa e tenterò di esprimerli senza inutili giri di parole.

Manifestare per la vita umana, la legalità, la tutela contro il proliferare di inquinanti cancerogeni ed avvelenanti.

Manifestare per la cultura del diritto ad un lavoro sicuro, un sindacato realmente vicino alle persone, la costruzione di lavori alternativi attraverso le strade possibili, le conversioni ad esempio.

Queste due esigenze hanno trovato un punto di incontro nel 2012, importante. Perché, per la prima volta, lavoratori in vario modo legati all’universo dell’industria pesante, e famiglie di cittadini ambientalisti, ecologisti, semplicemente persone preoccupate dall’aumento di malattie e morti, specialmente tra i bambini, o dalla crisi della mitilicoltura e degli allevamenti, hanno unito le forze ed hanno tentato di convergere verso obiettivi comuni.

Dal 26 luglio 2012, sequestro preventivo dell’area a caldo dell’Ilva, alla fine dell’anno, c’è stato un progressivo aumento di sit-in, assemblee pubbliche, eventi di sensibilizzazione, alcuni condivisi altri vissuti parallelamente.

In due momenti, le battaglie complementari sono riuscite ad unirsi il più possibile, in una fiaccolata del 5 ottobre 2012, a sostegno di giudici ed in ricordo delle vittime delle malattie, ed in una grande manifestazione del 15 dicembre 2012, con picchi di partecipazione fino a 20.000, o più entusiasticamente 30.000 manifestanti pacifici, secondo alcuni. E chi lo sa.

Tantissimi, in ogni caso, questo non può metterlo in dubbio davvero più nessuno.

Al grido di “Taranto Libera”, si è andati avanti. Con non poche censure mediatiche di quella partecipazione così massiccia.

La trasformazione di un’Aia, Autorizzazione integrata ambientale – rilasciata abusivamente secondo alcuni in quanto l’area a caldo era sotto sequestro – in un decreto, e poi in una legge, denominata “Salva Ilva”, e, diciamolo pure “Salva Industrie se vogliono inquinare e non assumersi le loro responsabilità davanti alla legge”, ha portato la Procura della Repubblica di Taranto a rivolgersi alla Corte Costituzionale, sollevando un incidente di costituzionalità. In sintesi, quella “ormai legge” converte un’Aia – già con forti dubbi di legittimità da una parte – e di fatto blocca l’iter giudiziario seguito ad anni di indagini e perizie.

L’udienza pubblica è vicina, ci siamo, manca davvero poco.

E, così, le diverse sensibilità di Taranto sul problema stanno provando a riunirsi, nuovamente in una nuova grande manifestazione contro qualsiasi legge “Salva Ilva”.

Hanno pensato alla data del 7 aprile 2013 quando dalle 10 di mattina, davanti all’Arsenale di Taranto ci sarà il raduno e poi partirà il corteo verso Piazza della Vittoria.

I media nazionali in passato censurarono le manifestazioni precedenti del 5 ottobre e del 15 dicembre ed ora sarebbero disposti a parlarne, perché sono in forze a Taranto in attesa delle sentenze sul caso Scazzi.

Certo, sarebbe stato corretto e professionale non condizionare la loro presenza e voglia di documentare sul campo ad altra narrazione. Ma spero, a questo punto, in precisi resoconti di quanto avverrà effettivamente domenica prossima, a prescindere dal mio biasimo verso il modo di gestire in passato queste intense prove di partecipazione collettiva e sociale, mai viste a Taranto.

Si, perché, poi, francamente mi annoia sentir dire da giornalisti ed editori che il web toglie loro lettori o spettatori. In quanto, se questo è accaduto è perché la stampa ha lungamente preferito le marchette e la politica, abbandonando i problemi della gente. Ed è davvero una lacrima di coccodrillo poi lagnarsi perché i cittadini hanno imparato ad informarsi da soli, usando web tv in streaming e social. Insomma, cari colleghi, ed editori: avete rotto con la lagna, è stata colpa vostra, pensate piuttosto a rimediare con uno scatto d’orgoglio epocale!

Due giorni dopo il 7 aprile, davanti alla Camera dei Deputati, si prevede un altro sit-in, stavolta a Roma, il 9 aprile, a Roma, a sostegno della Costituzione e degli articoli messi in discussione dal “Salva Ilva”.

Su un binario diverso stavolta, altri gruppi di lavoratori stanno lavorando ad un “1° maggio alternativo ed autorganizzato” e quindi il loro logo non sarà ufficialmente presente il 7 e 9 aprile ma solo il 1° maggio.

Tutto questo non mi sorprende molto, perché la sordità della politica alle istanze dei lavoratori scarica su di loro il peso del ricatto occupazionale e, fino ad oggi, hanno mostrato tanto coraggio e fierezza nell’esporsi.

Molti di loro, probabilmente attendono che qualcuno gli spieghi come dare il loro contributo per risanare e bonificare, in lavori alternativi, ostacolati, e cercano di essere il sindacato che non hanno mai avuto.

Le battaglie, insomma, sono complementari, ma non così divergenti come a qualcuno potrebbe sembrare.

In questo bisogno di impegnarsi parallelamente – senza dunque impedire ai singoli di partecipare, non ce lo dimentichiamo, anzi ricordiamolo – ci vedo l’urgenza di perseguire i due obiettivi senza perdere tempo: da un lato il sostegno morale ad un percorso giudiziario, comunque attraverso iter previsti dalle leggi; dall’altro la necessità di mantenere uniti i lavoratori di Ilva ed indotto disposti a lavori nuovi e puliti che di fatto ancora non sono possibili se non andrà avanti un convinto piano di conversione economica e la politica continuerà ad usare la legge Salva Ilva come la sua ancora di salvezza per non procedere a nuove forme di sviluppo economico alternativo e sostenibile.

Tutto questo, nella città che fu antica capitale della Magna Grecia, dove la mitilicoltura era un vanto, e l’agroalimentare stava raggiungendo risultati superlativi nei circuiti di qualità e slow food…

Ho documentato molto quelle manifestazioni di fine anno e troverete i miei post, però vorrei ricordare le foto simbolo, gentilmente concesse già all’epoca, sulla fiaccolata del 5 ottobre, nello scatto di Simone Mairo e su “Taranto Libera” del 15 dicembre nello scatto di Luca Furlanut.

Fiaccolata dall'alto del balcone di Simone Mairo

Scatto di Simone Mairo, postato su twitter, dal suo balcone, della “Fiaccolata del 5 ottobre per la Magistratura ed in ricordo delle vittime dell’Inquinamento”.

Foto di Luca Furlanut, Riproduzione Vietata.

15 dicembre 2012 – Foto di Luca Furlanut, Riproduzione Vietata.

In un video, Christian Cicala ha provato a realizzare uno spot sul “7 aprile”, utilizzando “A bocca chiusa” di Daniele Silvestri dal quale ha ricevuto un simpatico ringraziamento ed un invito a perseverare per il bene di Taranto.

E non guasta affatto ricordare il video clip di Taranto Libera, degli Artisti Uniti per Taranto…

ed un altro video su tutte le manifestazioni degli anni precedenti, intitolato “Taranto, solo alla fine” di Gerardo Guarini

Sommando tutte queste immagini, si può capire il livello di partecipazione democratica dei tarantini. E, soprattutto, il punto di non ritorno di una comunità che ha capito come informarsi e contrastare ambienti corruttibili e corrotti.

I social network vengono utilizzati molto: facebook per aggregare; instagram per documentare con le foto; twitter per comunicare ad un livello più alto con blog, video ed immagini.

La speranza sarebbe far schizzare subito nei primi 10 posti, tra le tendenze di twitter, gli hashtag specifici: #ta7aprile (in aggiunta a quelli generici usati l’anno scorso, #TarantoLibera, #Taranto, #Ilva); subito dopo #Roma9aprile; e poi, aggiungiamoci pure #referendum14aprile, sul referendum consultivo del 14 aprile nel quale sarà possibile esprimersi sull’Ilva, una data rinviata lungamente fino ad ora, ma questa è un’altra storia…

I media nazionali ignorano “Taranto Libera” ed i suoi 10.000/20.000 manifestanti? Preferendo difendere un D.L. Incostituzionale Salva Ilva? I cittadini si informano da soli. Noi c’eravamo…

Il corteo era già partito da Piazza Sicilia, il 15 dicembre 2012. Ho preso il bus della linea 14, sperando di raggiungere una delle strade più vicine possibili alla manifestazione “Taranto Libera”, innanzitutto a difesa della legalità e contro un decreto legge incostituzionale “Salva Ilva/Ammazza Taranto”. Capace di tentare di sottrarre alla Magistratura l’obbligo di perseguire i reati ambientali e chi li ha commessi: a danno della salute e sicurezza, prima di tutto, degli stessi lavoratori, e, di pari passo, di chi risiede più vicino a quella fabbrica di diossine, ipa, benzo(a)pirene ed inquinanti genotossici per le nuove generazioni. Dovrà essere votato tra pochi giorni, poche ore, in barba alla Costituzione Italiana, se nessuno avrà rimorsi di coscienza tra i parlamentari.

Nell’autobus c’erano due ragazzi, entrambi lavoratori dell’Ilva, entrambi dovevano andare alla manifestazione, ed entrambi mi hanno detto: «Siamo operai dell’Ilva ma noi mettiamo al primo posto la salute di tutti noi». In loro, c’era l’adrenalina di chi voleva raggiungere il corteo al più presto. Una specie di ansia. Dovevano esserci, dovevano poter dire “Io c’ero”. Tantissimi cittadini, avevano la stessa identica ansia. Volevano esserci. Ce l’avevo anche io, come loro. Non so spiegare perché. Arriviamo al corteo quando era tra Corso Italia e Via Umbria: mai vista tanta gente manifestare a Taranto in vita mia, e non l’ha vista mai nessuno, da sempre. Erano famiglie, coppie, gruppi di amici, genitori con bimbi appena nati, cittadini di altre città come Genova, Trieste, pare anche da Roma, Torino, Trento, e da Brindisi e Bari ovviamente.

Dal canale youtube “Cozze Tarantine”, rilanciato su Twitter ed altri social network

L’emozione di quel momento era tanto più forte in chi la stava condividendo con gli affetti più cari, guardandosi negli occhi, o con il loro ricordo, appeso al collo ed impresso, nero su bianco, su un cartello, uno striscione. Quando la testa del corteo era arrivata in Via D’Aquino, alle soglie di Piazza della Vittoria, la coda era ancora in via Principe Amedeo: tante persone, forse 10.000, forse 15.000, forse con un picco di 20.000 nel momento di più intensa partecipazione. E “Taranto Libera” era il loro inno.

Il video di Simone Mairo

In molti, speravano in una eco nazionale pari a quella dei blocchi stradali estivi, pagati dall’Ilva. Ed invece no, il grosso dei media ha oscurato l’evento, con sommo dolore dei tarantini. Loro però adesso non si fanno più fregare, perché si auto informano, producono video su tutte le fasi, foto professionali, in circolazione già quando la manifestazione era ancora in corso, con l’aiuto delle nuove tecnologie. Da tempo mi assale un dubbio esistenziale. Ma cosa succede al mondo del giornalismo? In quale momento storico, ha abdicato e smesso di voler vivere sul campo ogni emozione, scegliendo il racconto mediato di agenzie stampa sempre più sommarie alla cronaca sul campo? Chissà…Se oggi fossi una ragazza, giovanissima, tra i banchi di scuola, alla domanda “Cosa vuoi fare da grande”? Risponderei: “Vorrei fare la blogger, per poter andare in mezzo alla gente, percepire le emozioni, conoscere i volti e le storie, direttamente, e poi raccontarle”.

Come siamo arrivati al punto di dover leggere giuste doglianze dei citizen reporter per caso e per forza sull’assenza dei media? O sulla presenza faziosa e superficiale?

Oggi, questo è il mio racconto, ed è allo stesso tempo il loro racconto: nei momenti cruciali del corteo, quando l’apecar, volenti e nolenti, unico simbolo di questa fase storica, in grado di unire cittadini e lavoratori dell’indotto industriale, riusciva ad animare i partecipanti, coinvolgerli; quando c’erano cori; c’erano attimi di silenzio; c’erano le storie di malati, disoccupati dell’industria, della mitilicoltura, degli allevatori, nel monologo di Marco De Bartolomeo, come nella migliore tradizione dei cantautori pieni di anima; c’erano le facce degli artisti, al concerto finale di “Taranto Libera”.

 

La Taranto legale, la Taranto a schiena dritta, la Taranto sognatrice e ribelle, bisognosa di rispetto e non più disposta ad essere una città necessaria e sacrificale a vantaggio di chi viola la legge. Questa, la Taranto migliore, non molla! Io c’ero. Noi, c’eravamo.