Ilva, giovane operaio denuncia corsi di formazione fasulli e mancanza di sicurezza, tra morti di cancro ed incidenti: “Non ho nessuna emozione, mi viene da piangere”

Ci sono esperienze che ti segnano per sempre. Una di queste fu l’unica volta che il quotidiano, dove collaboro dal 2001, mi consentì di fare delle interviste fuori dalla Portineria D dell’Ilva di Taranto. Non mi era mai capitato di avvicinarmi professionalmente così agli operai. Mi colpì che i fruttivendoli erano rattristati perché, siccome erano costretti a respirare lo stesso le polveri, avrebbero preferito lavorarci, nella fabbrica attaccata ai Tamburi , invece che limitarsi ad aspettare il cambio turno per vendere qualcosa. I più giovani, appena vedevano i giornalisti, si spaventavano. Uscivano con gli occhi rossi, allucinati. Non lo scorderò mai. Come si potrebbe scordare una cosa del genere….Da allora ho capito che lì dentro c’era tanta violenza psicologica, mista a frustrazione, e che bisogna oggi trovare il modo di parlare al cuore degli operai che ancora si tengono tutto dentro.

I più anziani parlavano, quelli che erano vicini alla pensione pure. Ci fu un ragazzo che ebbe il coraggio di confidarsi ma mi chiese di non chiedergli il suo nome ed io accettai. Chissà dove si trova oggi. Se è tra i coraggiosi dell’Apecar o tra chi ancora vive le sue paure in silenzio, o chissà…Oggi ho capito cosa significa quando si dice “I tempi sono maturi”…Già, cosa mi direbbe oggi? Forse mi direbbe il suo nome? Forse si lascerebbe andare ancora di più? Nel 2004 disse di avere 23 anni.

Altro tarlo nella mia testa riguarda il percorso della coscienza che mi ha fatto trovare tra le scartoffie di tutti questi anni di lavoro quel vecchio articolo del 18 febbraio 2004.

Scelsero di titolare così:

Occhiello – “Viaggio in fabbrica: Parlano gli operai ai cancelli del colosso. Preoccupazioni, no comment, clima pesante, un po’ di fiducia ma anche timori. “Dobbiamo vivere”.

Titolo – «Senza Ilva non c’è futuro. Ma dateci salute e sicurezza».

18 febbraio 2004 - Nuovo Quotidiano di Puglia

18 febbraio 2004 - Nuovo Quotidiano di Puglia seconda parte

Come avrebbe titolato un operaio di quelli dell’Apecar oggi?

O un ambientalista?

O un biofilo paladino della vita?

O una mamma in pena per un figlio al lavoro senza misure di sicurezza?

Come si porta un abitante di Taranto a sperare in un lavoro diverso da quello in fabbrica?

Come si porta un bambino a sognare?

Erano le due del pomeriggio, quando, ieri, di fronte alla portineria D dell’Ilva, come ogni giorno, gli operai andavano e venivano, affollavano il piazzale poco prima del cambio di turno e, magari, compravano pesce fresco, frutta e verdura, nel mercatino ambulante improvvisato lì davanti. Ultimamente, un vero e proprio ciclone mediatico ha investito il centro siderurgico. Specialmente quando il patron, Emilio Riva, ha annunciato l’intenzione di chiudere mezzo stabilimento e mandare a casa ben 6.000 lavoratori, se non dovesse riuscire a procurarsi il coke per far funzionare gli altiforni. Infatti, da un lato, la Cina avrebbe bloccato le esportazioni e, dall’altro,

le fatiscenti, pericolose e inquinanti cokerie tarantine sono chiuse.

Gli operai, di questa crisi, preoccupante, innegabile e insidiosa, non “sanno nulla” o “preferiscono non parlare”. E se chi ha il coraggio di esporsi si limita quasi sempre a chiedere lavoro e a negare il peggio, chi, invece, non lo fa e mantiene un rigoroso anonimato, piuttosto, corregge il tiro e invoca investimenti, migliori rapporti umani in reparto, sicurezza in fabbrica e salvaguardia dell’ambiente. «Non so se fuori sanno veramente come andrà a finire. Qui dentro, comunque, tira sempre la stessa aria – ha affermato Emanuele Castaldo, 44 anni, fino a due anni fa’ lavoratore dell’indotto, e dal 2002 operaio dell’acciaieria – com’era prima, è oggi la situazione. Esattamente uguale. E non è cambiato proprio nulla. In futuro, tutto si può fare, se si vuole. Potenziare l’industria, rispettare l’ambiente e far lavorare i giovani. E, siccome l’Ilva sta assumendo ancora, io spero di veder lavorare mio figlio in fabbrica un giorno». Angelo Orlando, 45 anni, sposato, con due figli, e 17 anni di lavoro all’Ilva alle spalle, prima faceva il muratore e il montatore reflattario, e lavorava in tutte le batterie e gli altiforni, ora, invece si occupa di pulizia industriale. Superando il timore di esprimere la sua opinione, alla fine, s’è lasciato andare: «il lavoro che faccio oggi, forse, è un po’ meglio.

Tuttavia, secondo me, in acciaieria non c’è crisi. E, dietro le preoccupazioni di questo periodo, potrebbe esserci la voglia di chiedere soldi allo Stato. Anche perché la dodicesima batteria l’abbiamo sistemata noi e sforna un sacco di coke».

Non era proprio dello stesso avviso un operaio con poco più di 45 anni, 25 anni di lavoro, e non troppa voglia di apparire. E, nonostante tutto, in anonimato, ha raccontato quale clima si respira in reparto: «proprio l’altro ieri, qualcuno ha ventilato la possibilità di licenziare 6000 persone. Nessuno ti minaccia, per l’amor di Dio, però ti fanno vivere sul chi va là. Noi stiamo un passo fuori e uno dentro, in attesa di andare in pensione e risolvere il problema dell’esposizione all’amianto.

Ma, per i ragazzi, è diverso. Loro non seguono più i corsi di formazione. Siamo noi operai più esperti ad addestrarli, se siamo all’altezza. E, intanto, su questi impianti complessi, corrono parecchi rischi.

Se la domanda di acciaio continua a diminuire, possiamo andare avanti così. Altrimenti, bisognerà rimettere in funzione le cokerie.

Però, il primo passo dovrebbe essere formare i ragazzi. E, poi, risanare davvero lo stabilimento con finanziamenti privati. Non succederà solo se, probabilmente, vogliono chiedere soldi allo Stato.

Comunque, secondo me, se non inizieremo a produrre acciaio speciale, non ci sarà futuro per noi sul mercato.

Perché qui, ormai, si pensa molto alla quantità e poco o niente alla qualità.

Se, invece, bisogna continuare a produrre acciaio meno pregiato, dovremmo iniziare a trasformalo al Sud».

Lì affianco, un giovane di 23 anni si apprestava ad entrare in fabbrica e la sua amarezza ce l’aveva scritta in faccia: «non ho nessuna emozione. C’è solo da piangere. Già bisogna faticare molto per entrare all’Ilva e, dopo, bisogna rassegnarsi a non seguire i corsi di formazione, necessari e vitali ad un giovane alle prime armi, e lavorare subito in reparto, spesso, senza le mascherine adatte. Qui dentro è morta tanta gente finora, di cancro o incidenti, e lo Stato e i privati dovrebbero mettersi d’accordo, rimediare agli errori del passato e pensare alla sicurezza e all’ambiente. Un futuro senza siderurgia a Taranto significherebbe la fine per tante famiglie. E se i politici e Riva non si decidono e continueranno a scaricarsi addosso le responsabilità, la loro partita a tennis non finirà mai».

Marco Mutaci, 48 anni, ex sindacalista, con una moglie e due figli, ha lavorato dall’82 al 96 sugli altiforni e poi alla Laf. Successivamente, è stato in cassa integrazione, e, subito dopo,

ha seguito i corsi di riqualificazione, dove venivano insegnate “parentesi tonde e graffe”.

È stato esposto cinque anni all’amianto, andrà in pensione nel 2009, ora si occupa di pulizie civili e non aveva paura di esporsi: «Riva vorrebbe licenziare 6.000 persone perché non arriva il carbone dalla Cina. E, ora, forse, bisognerà riattivare le cokerie 5 e 6, per far funzionare gli altiforni. Sarà sempre meglio che mandare via tutte quelle persone, no? Io non ho fiducia. Perché il privato è l’anticamera di licenziamento e cassa integrazione.

E in fabbrica non si lavora in sicurezza. Infatti, un operaio giovane si è appena tranciato un braccio. Non c’è futuro e deve essere Riva ad investire».

L’incertezza di un futuro senza l’Ilva accomuna tutti gli operai e nessuno di loro riesce ad immaginarsi una città turistica. Come tanti altri, Antonio Caforio, 48 anni, sposato, con 3 figli studenti, già esposto all’amianto, ha bisogno di quel lavoro:

«brutto che sia, meglio di niente è.

In fabbrica si parla poco della crisi e l’unica cosa certa è che le cokerie sono bloccate da due anni. Secondo me, la siderurgia potrebbe avere un futuro solo se si investisse in tecnologie avanzate eco-compatibili. E bisogna avere fiducia. Le assunzioni di questo periodo vorranno dire qualcosa no?

L’Ilva è la nostra unica risorsa. O mangiamo qui dentro o facciamo la fame.

Dobbiamo crederci. Perché già lo stabilimento ha problemi. Se poi decidessero di chiudere e bonificare tutto, tante famiglie smetterebbero di vivere». Erano le tre del pomeriggio, quando sono usciti tutti gli operai del turno mattutino.

E la loro espressione tradiva tanti sentimenti contrastanti.

Soprattutto, stanchezza, frustrazione, incertezza e timore.